mercoledì 9 novembre 2016
Con una sentenza innovativa la Consulta ha dichiarato incostituzionale l'attribuzione automatica del cognome del padre, nel caso in cui i genitori scelgano diversamente.
Il Palazzo della Consulta a Roma

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Ancora una volta, la Corte costituzionale precede l’intervento del legislatore. A quasi quarant’anni dalla presentazione della prima proposta di legge in materia, e con un ddl approvato nel 2014 alla Camera e ormai fermo da due anni in Senato, una pronuncia della Consulta apre alla possibilità che i figli nati nel matrimonio prendano anche il cognome della madre, in aggiunta a quello del padre, se tra i coniugi c’è accordo.

La Corte, si legge in una nota diffusa ieri, ha infatti accolto «la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’appello di Genova sul cognome del figlio», dichiarando «l’illegittimità della norma che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa volontà dei genitori». La pronuncia era stata innescata da un ricorso presentato nel capoluogo ligure da una coppia italo-brasiliana, decisa a far registrare all’anagrafe il figlio col doppio cognome di papà e mamma.

Una decisione motivata non solo in base alla parità di genere, ma anche per 'armonizzare' la situazione anagrafica del bimbo (che ha doppia cittadinanza) che sui documenti italiani avrebbe avuto il solo cognome paterno e su quelli brasiliani quelli di entrambi i genitori. Ma l’amministrazione aveva respinto la richiesta e il caso era approdato in tribunale, finché la Corte d’Appello ha rinviato gli atti alla Consulta, che ieri ha dato ragione alla coppia.

La Corte costituzionale si era già occupata del nodo nel 2006 (come ha ricordato in udienza il giudice relatore Giuliano Amato) definendo l’attribuzione automatica il «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia», ma ritenendo che la questione esorbitasse dalle proprie prerogative. Ma adesso, secondo i magistrati di Genova, il quadro è cambiato: nel 2008 è intervenuta un’ordinanza della Cassazione; poi è entrato in vigore il trattato di Lisbona (che vieta ogni discriminazione fondata sul sesso) e ancora la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia ,ritenendo «discriminatoria verso le donne» l’inesistenza di una deroga.

L’automatismo a favore del cognome paterno, che la Consulta ha fatto cadere, non è previsto da una norma ad hoc, ma desumibile da diverse disposizioni, a partire da alcuni articoli del codice civile. Il prefetto, su richiesta, può autorizzare il doppio cognome, ma negli ultimi anni le autorità prefettizie hanno deciso in modo non univoco. Inoltre, secondo i magistrati genovesi, l’automatismo viola diversi diritti sanciti dalla Carta: all’identità personale e all’uguaglianza e pari dignità sociale dei genitori (articoli 2 e 3); alla parità morale e giuridica dei coniugi (art.29): e contrasta col dovere dello Stato di rispettare gli obblighi internazionali (art.117).

Entrambi i genitori, presenti all’udienza pubblica a palazzo della Consulta, non hanno rilasciato dichiarazioni. Per loro parla l’avvocato Susanna Schivo: «Siamo raggianti e felici che, da una questione privata, si possa essere utili alla collettività. Bisognerà leggere comunque tutta la decisione, per capire se ciò sarà possibile per tutti i casi, o se vi sia solo la possibilità di scegliere il cognome materno piuttosto che quello paterno». In attesa del deposito della sentenza della Consulta, la decisione riaccende il dibattito politico.

Nel Pd sono diversi a parlare di «decisione storica», auspicando – come dichiara Anna Finocchiaro (Pd) presidente della commissione Affari costituzionali del Senato e firmataria del disegno di legge fermo a Palazzo Madama – che il testo possa concludere l’iter «in tempi certi e brevi». Analogo auspicio arriva dagli operatori del diritto: «Finalmente l’Italia esce dal patriarcato – osserva il presidente dell’Associazione degli avvocati matrimonialisti italiani,

–. Ora sta al legislatore intervenire».

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