sabato 11 maggio 2019
101 anni, reduce di Russia, ha la stessa età dell’Associazione nazionale nata a Milano e si prepara all’Adunata: «Io sono tornato e non posso dimenticare i compagni morti là, nella neve»
Marco Razzini con la moglie Marisa

Marco Razzini con la moglie Marisa

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Quando è nata l’Associazione nazionale alpini, lui aveva già un anno e certo non pensava che avrebbe portato quel cappello con la penna nera per un tratto così lungo della sua vita centenaria. E oggi, che di primavere ne ha 101, ripercorre a ritroso questo sentiero secolare con la lucidità della mente e la passione del cuore di chi ha vissuto con intensità ogni singolo passo, consapevole della responsabilità di essere rimasto tra i pochi a tramandare una storia gloriosa e tragica. «Sono l’ultimo ufficiale vivente del battaglione Dronero». Si presenta così, Marco Razzini, tenente degli alpini classe 1918, che si prepara ad abbracciare le penne nere, tornate a Milano per l’Adunata del Centenario di fondazione dell’Ana, associazione alla quale è iscritto dal 1939, anno del suo ingresso alla Scuola allievi ufficiali universitari a Bassano del Grappa.

Iscritto a Scienze politiche ed economiche alla Cattolica, allo scoppiare della guerra, nel giugno 1940, il milanese Razzini viene subito inviato, con i suoi uomini, a presidiare il confine con la Francia, ma il vero “battesimo del fuoco” arriverà nell’estate del 1942 con la partenza per il fronte russo. «Partimmo da Busca e ci fermammo a Milano-Lambrate, dove ebbi la sorpresa e la gioia di poter salutare la mia fidanzata», ricorda l’anziano ufficiale, mentre stringe, con affetto, la mano della donna che ha conosciuto nel 1941 e sposato nel ’52 e dalla quale ha avuto tre figli.

«Diedi cinque lire alla guardia e così riuscii a passare, portandogli un grosso sacchetto di caramelle per il viaggio», ricorda Maria Luisa (Marisa) Stradella, ex-insegnante di disegno e storia dell’arte, che il prossimo 11 ottobre entrerà nella cerchia dei centenari e, mentre il marito racconta, tratteggia su un’agenda il ritratto di don Carlo Gnocchi, l’indimenticato cappellano della Tridentina. Un’affinità, quella con santi e beati, di casa nella famiglia Razzini-Stradella: Marisa è cugina di santa Gianna Beretta Molla e Marco è secondo cugino del venerabile Marcello Candia.

«Quando arrivò l’ordine di ripiegare – ricorda Razzini – noi della Cuneense puntammo su Valuiki, dove ci scontrammo con i sovietici il 27 gennaio ’43». Accerchiati e rimasti senza munizioni, gli alpini dovettero arrendersi e anche il tenente Razzini fu fatto prigioniero e, con gli altri ufficiali italiani, inquadrato in una delle famigerate marce del “davai”, espressione che significa “avanti” e che i russi utilizzavano per spronare i prigionieri, affamati e stremati dalla fatica e dalle privazioni, ad avanzare più velocemente nella sterminata steppa ghiacciata. La maggioranza non sopravviverà a quel trattamento disumano.

«Dei 52 ufficiali del battaglione Dronero siamo tornati a casa soltanto in sei e della mia 17esima compagnia, solo io e un altro ufficiale», ricorda Razzini, elencando a memoria i nomi dei compagni morti e ricordando anche alcuni episodi della prigionia, durata ben tre anni e mezzo.

«Una sera – racconta Razzini e la voce quasi si spezza – trovo nella baracca uno dei miei alpini intento a cucinare una specie di brodaglia in un pentolino improvvisato. Guardo meglio e vedo galleggiare in superficie un pezzo di carne o qualcosa che le somigliava molto. Scopro così che, per la disperazione, quell’alpino aveva staccato un brandello di coscia da un compagno appena morto e se la voleva mangiare. “Siamo uomini, siamo alpini, non cannibali”, ho urlato, prendendo a bastonate quel povero alpino, ormai ridotto a uno scheletro».

Da tutto questo orrore, Razzini riuscirà ad uscire soltanto nella primavera del ’46, facendo rientro a Milano il 16 luglio. Ma alla Stazione Centrale non c’era la sua Marisa ad aspettarlo, trattenuta al liceo scientifico di Luino, in provincia di Varese, da un preside particolarmente insensibile al richiamo del cuore. Già, perché per tutto il tempo della prigionia, ogni settimana, la giovane era andata alla stazione con la speranza di leggere, tra i nomi dei rientrati, anche quello del suo alpino. E ignorando i “consigli” di chi le diceva di lasciar perdere, «che tanto il tuo Marco non torna». Invece, lei lo ha aspettato con pazienza e fiducia e, alla fine, è riuscita, finalmente, ad abbracciarlo. Coronando una storia d’amore e alpinità, sbocciata sotto le bombe e fiorita all’alba della nuova Italia liberata. Che anche gli alpini come il tenente Razzini (e tanti altri) hanno costruito forte e bella.

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