Tanti in questi giorni cercheranno di capirci. Di capire noi alpini. Tanti proveranno a spiegare cosa spinge una volta l’anno decine e decine di migliaia di persone – le previsioni parlano di oltre quattrocentomila – a dedicare tempo, fatica e denaro per ritrovarsi insieme, salutarsi, fare festa. Tanti, sorpresi da queste giornate di alpinità milanese, dalla compostezza e dall’entusiasmo, dall’allegria contagiosa e dal rispetto per la città, pretenderanno di spiegare che dietro le adunate nazionali delle penne nere ci sono soprattutto ricordi, amicizie, nostalgia di una giovinezza lontana. Forse anche l’illusione di riviverne qualche frammento. Forse anche il desiderio di immergersi in un folclore tutto particolare, in un immaginario di tradizioni e di simboli, di ritualità e di passaggi rassicuranti. Condivisione e vicinanza. Sarà. Ma basta tutto questo a spiegare le ragioni di un’adunata capace di raccogliere ogni anno, da decine di anni, circa mezzo milione di persone? No, certo.
E allora cosa c’è ancora nel cuore di questo evento? Alcuni ricorderanno che, accanto al desiderio di far memoria della naja alpina, c’è anche tanta progettualità concreta, tanto impegno solidale, tanto slancio umanitario. Tutto vero. Dal terremoto del Friuli a tutte le grandi sciagure che nell’ultimo mezzo secolo hanno ferito la vita del Paese, non ce n’è una che non abbia visto gli alpini generosamente in prima linea. Con lo stesso impegno civile i gruppi alpini offrono braccia e cuore a tante iniziative locali, dai progetti di tutela del territorio alle sagre paesane. Qual è la molla che induce tante persone, molto spesso con i capelli grigi, ad animare tutto questo volontariato? E quali sono le ragioni che spingono a rappresentarlo poi all’adunata nazionale, con l’orgoglio umile di chi non punta a vantaggi personali ma solo alla soddisfazione di aver contribuito al bene comune? Sono domande che occorre farsi in questi giorni per evitare di "leggere" il grande raduno delle penne nere in una prospettiva distorta.Sarebbe banale e anche offensivo guardare all’adunata nazionale alpina – quest’anno particolarmente importante perché si svolge nel centenario della fondazione dell’Ana, l’associazione nazionale – come a una stravagante scampagnata di ex commilitoni che una volta l’anno mangiano e bevono insieme con la robusta veemenza della gente di montagna. Luoghi comuni che servono a poco. E, in questa circostanza, meno che mai. Non solo festa quindi, non solo carrellata di progetti solidali passati e futuri per quanto di grande significato, ma neppure solo commemorazione di fatti d’arme.
Potrebbe sembrare paradossale. Ma dietro questo gigantesco ritrovo fra uomini che hanno vestito la divisa, l’elemento militare non è poi così preponderante. Certo, domenica, Milano sarà pacificamente invasa 'anche' da tanti reparti in armi, sfileranno bandiere di guerra e labari cariche di medaglie al valore. Il passato non si cancella ed è giusto ricordare chi ha sacrificato la vita per un patto di fedeltà, al di là delle sentenze, spesso amare e talvolta anche contraddittorie della storia. Ma se tutto si riducesse a questo non sarebbe possibile convogliare con regolarità e convinzione l’entusiasmo di migliaia e migliaia di persone. Il reducismo non sarebbe sufficiente per alimentare a lungo la passione civile degli alpini né per spiegare una volontà di appartenenza che, come tutte le promesse che contano, è per sempre. Sia perché i reduci, quelli veri, che hanno portato la penna nera nelle guerre mondiali sono, per evidenti ragioni anagrafiche, ormai al lumicino, sia perché chi ha prestato il servizio militare tra le truppe alpine in tempo di pace non considera l’orgoglio delle stellette come ambito esaustivo dei suoi sentimenti di alpinità.
C’è la memoria di quanto si è vissuto insieme, certo. C’è anche un pizzico di innocua mitologia, i muli, le marce, gli zaini pesanti e, per noi artiglieri da montagna, sfide iperboliche come il presentat’arm con il 'tubo obice'. Ma se fosse tutto qui, sarebbe possibile radunare questo popolo vastissimo, pacifico e positivo? C’è dell’altro, molto d’altro nel mosaico interiore delle penne nere. C’è la passione misurata ma coerente – perché l’autenticità alpina non conosce eccessi di alcun genere – per la difesa della natura. Parole come quelle della Laudato si’ potrebbero per esempio diventare per gli alpini manifesto e preghiera. C’è l’apertura solidale all’accoglienza di chi chiede aiuto, perché né in montagna ma neppure in una periferia urbana o in mezzo al mare si può vivere ignorando la mano tesa di chi incontri. C’è una spiritualità civile che non vuol dire misticismo disincarnato, ma vita secondo giustizia, impegno di cittadinanza e percorsi di fraternità. C’è una radice di prossimità evangelica che non ha bisogno né di proclami né di simbologie ostentate perché vive di quotidianità semplice e buona.
Ecco perché noi alpini, che cerchiamo faticosamente di fare di questi valori essenziali uno stile di vita, non riusciremo a tacere. Da domani vogliamo raccontare così a tutta Milano il senso autentico di quel cappello verde con una penna protesa verso il cielo che indica una direzione e una speranza.