Uno sgombero a Scampia, Napoli (foto d'archivio, Ansa)
L’attuale struttura del patrimonio residenziale pubblico non è sufficiente. Servirebbero infatti almeno altri 300mila alloggi per soddisfare tutte le richieste, stando ai dati diffusi da Federcasa, in occasione del convegno promosso insieme a Federcostruzioni a Bari in questa settimana. Negli ultimi anni il Governo ha investito per le politiche abitative lo 0,01% del Pil, passando dagli oltre 422 milioni di euro del 2014 ai 136 milioni di oggi. Oltre a un calo delle risorse statali, va ricordato che il 7% degli alloggi gestiti dall’Istituto autonomo per le case popolari (Iacp) è sfitto e, di questi, uno su cinque non è assegnabile perché inadeguato.
La mappa delle case popolari sul territorio è a macchia di leopardo, con emergenze storiche soprattutto nel Centro Italia e nel Mezzogiorno. L’insoddisfazione dei comitati inquilini e dei sindacati per l’offerta di edilizia residenziale pubblica è cronica e anche le risposte delle Regioni e dei Comuni nelle grandi realtà del Nord Italia, a partire da Milano, rimangono non sufficienti. Poi c’è il resto: il fenomeno delle occupazioni abusive che va avanti, la zona grigia sempre più vasta tra illegalità e legalità, le tensioni sociali alimentate ad arte tra italiani e stranieri. La casa resta una grande questione sociale dimenticata, come dimostrano le storie raccontate in questa pagina.
Roma. Ritorno a Casal Bruciato, la rabbia non si è spenta
A sei mesi dall’assegnazione della casa popolare, e dai disordini che ne sono seguiti, la famiglia rom destinata all’alloggio di Casal Bruciato, periferia est di Roma, non abita più lì. Gli Omerovic, assieme ai loro 12 figli, hanno lasciato il quartiere a giugno e ora vivono a Spinaceto, a sud del Raccordo anulare, in un complesso in cui risiedono anche altre famiglie rom. Hanno scelto di andarsene nonostante le proteste guidate da CasaPound fossero già finite da un pezzo e quando ormai nessuno dava loro più fastidio.
Non è un quartiere facile Casal Bruciato, come molti altri della periferia romana. Parlando con i residenti si capisce come sia facile trasformare l’insofferenza in odio: «In due anni abbiamo avuto tre morti ammazzati, proprio su questa via – si lamenta un abitante della zona – due sparati e un accoltellato. Se porti i rom qui non fai altro che aumentare la criminalità. A piazza Bologna ci sono altre case popolari, perché non li portano lì? Perché è un quartiere pulito e non li vogliono. Ma quello è il posto giusto per provare ad integrarli».
Eppure sarebbe sbagliato parlare di un posto intollerante: in un parcheggio alla fine di una strada chiusa lungo via Spellanzon – si legge nel rapporto 2018 dell’associazione “21 luglio” – c’è un insediamento abitato da sinti che fino ad alcuni anni fa praticavano la professione di giostrai. L’Opera nomadi spiega che sono lì da oltre trent’anni e sono assolutamente integrati. Secondo l’associazione c’è anche un’altra comunità di rom Khorakhanè, originaria di Mostar, che vive in modo disordinato nella piazza ed è arrivata dal campo comunale di Monte Mario (via Cesare Lombroso). Per loro, come per altri rom jugoslavi che vivono nelle case popolari, nessuno ha protestato.
Il malcontento non manca ma il problema, quindi, non sono “gli zingari”, piuttosto un generale senso di abbandono in cui versano molte zone della capitale. «Ho lottato una vita per fare politica su questo territorio. Abbiamo messo uno sportello di ascolto per le donne ed è stato subito chiuso per mancanza di volontari, abbiamo fatto tante iniziative, ma sono i residenti i primi a fregarsene – dice un vecchio attivista politico di zona –. Non siamo ancora come a Tor Bella Monaca, ma manca poco».
Lo stabile al quale era destinata la famiglia è un complesso enorme in via Zampieri, si affaccia su une delle piazze principali del quartiere. C’è anche un bar molto frequentato dai residenti e il proprietario abita nello stesso palazzo in cui gli Omerovic sono entrati nel maggio scorso scortati dalla Polizia: «Hanno fatto un enorme casino, è venuta anche la sindaca Raggi – dice – e poi se ne sono andati. Mi chiedo a cosa sia servito».
Una domanda a cui prova a rispondere la presidente del IV Municipio, Roberta Della Casa, anche lei coperta di insulti per aver portato la sua solidarietà alla famiglia: «Gli assegnatari possono anche aver scelto di andare via, ma in quel momento abbiamo voluto difendere i diritti delle persone, un principio che non può essere messo in discussione da nessuna tensione politica del momento. Tra l’altro eravamo a ridosso della tornata elettorale per le europee ed è chiaro che qualcuno ha voluto soffiare sul fuoco».
Va ricordato che per quelle proteste la procura della Repubblica di Roma ha iscritto nel registro degli indagati 24 persone vicine a CasaPound e a Forza Nuova. «Casal Bruciato resta un quartiere accogliente – continua Della Casa –. Nelle nostre graduatorie per gli alloggi popolari ci sono in lista diverse altre persone di etnie diverse. Continueremo ad assegnare le abitazioni a chiunque ne abbia diritto come prevede la normativa e senza alcuna discriminazione».
Napoli. Alloggi vuoti murati invece che assegnati
Gli alloggi popolari si sono liberati? Murateli. Succede a Napoli, dove il Comune non ha più una graduatoria per l’assegnazione delle case di edilizia pubblica dal lontano 1995. Così, quando un’abitazione per svariati motivi è lasciata libera e diventa disponibile per un nuovo inquilino, non c’è la possibilità di assegnarlo ai (sempre più numerosi) napoletani che ne avrebbero bisogno. La denuncia parte dall’alto, ovvero dall’Agenzia campana edilizia residenziale, nata recentemente dalle ceneri (e dai debiti) degli Istituti autonomi case popolari delle cinque province campane e chiamata a mettere finalmente ordine nel mondo degli alloggi popolari di Napoli e regione.
E il neopresidente, David Lebro, per prima cosa ha lanciato l’allarme proprio sulla situazione nella terza città italiana. Lo ha fatto scrivendo al sindaco Luigi de Magistris. «Ci troviamo in una situazione paradossale – dice il numero uno della neonata Acer –. Ci vengono riconsegnate le chiavi degli appartamenti e noi non sappiamo a chi riassegnarli. Così siamo costretti a murarli per evitare che siano occupati da abusivi. Questa è la situazione che ho trovato dopo il mio insediamento».
Ma quanti sono gli alloggi popolari lasciati liberi e poi murati? «Al momento sono 17 – spiega Lebro –, ma è chiaro che il problema della graduatoria è strutturale. Inoltre, non esiste solo il patrimonio immobiliare in capo all’Acer (circa 20mila alloggi, più del 50 per cento del totale) ma anche l’altro che fa capo al Comune. Immagino che anche per quelle case sussista lo stesso problema».
Dev’essere proprio così se in un blitz contro i clan di Scampia furono trovati diverse case popolari murate e disabitate e se lo stesso capo dell’unità anti-abusivismo della polizia municipale di Napoli, Gaetano Vassallo, ha dichiarato recentemente al quotidiano napoletano Il Mattino: «Non mi è mai capitato, negli ultimi anni, di sgomberare una casa che sia stata contestualmente riassegnata».
Per il momento, dal Comune non giungono risposte alle domande di Lebro. E nemmeno alle nostre: interpellata, l’assessore al Diritto all’abitare, Monica Buonanno, non ha ancora risposto. Fatto sta che nemmeno la decisione di murare ha sortito gli effetti sperati, visto che già alcuni degli alloggi popolari liberi sono stati assaltati dai soliti abusivi, che a Napoli non sono pochi (1.600 per quanto riguarda il patrimonio dell’Acer, che ammonta a 28mila case). I quali, tra l’altro, adesso possono sperare di mettersi facilmente in regola grazie alla sanatoria appena varata dalla giunta regionale per chi occupa abusivamente una casa popolare da almeno tre anni («Non tutte le posizioni potranno però essere sanate» precisa Lebro).
Il presidente dell’Acer ce l’ha con il Comune anche per il dilagare dei bed and breakfast in centro, che a suo dire accrescerebbero l’emergenza abitativa. Con l’esplosione del turismo in città, dopo gli anni bui della monnezza in strada (c’è ancora per la verità, ma molto di meno), una parte consistente delle abitazioni del centro storico è stata riconvertita in strutture alberghiere, col risultato che trovare casa a Napoli per una famiglia con basso reddito è sempre più difficile.
«Oggi anche una famiglia con un reddito di 50-60mila euro può rientrare nell’emergenza abitativa. Una boccata d’ossigeno per noi sono le misure per la casa pari a un miliardo inserite dal governo nella Manovra, comunque non sufficienti per risolvere un problema enorme come questo». Ma la vera soluzione, per Lebro, è «l’housing sociale». Che a Napoli non esiste, come la graduatoria.