C’è qualcuno che, quasi 70 anni fa, aveva già chiara la contraddizione tra l’articolo 27 della Costituzione, quello sul fine rieducativo della pena, e l’ergastolo ostativo. Era Eugenio Perucatti, direttore del carcere di Santo Stefano, l'isolotto dell'arcipelago pontino prospiciente Ventotene. Un cattolico illuminato e riformista che trovava disumano e controproducente il "fine pena mai". A riaprire il dibattito arriva la riedizione della sua opera del 1955 Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata, per i tipi di Editoriale Scientifica, curata dal prorettore dell’Università degli studi Roma Tre, Marco Ruotolo.
La presentazione online del volume arriva alla vigilia della sentenza della Corte costituzionale, che proprio oggi si pronuncia sul ricorso della I sezione penale della Corte di Cassazione circa l’esclusione dalla liberazione condizionale, in assenza di collaborazione con la giustizia, per i condannati per reati di mafia. Un pronunciamento che può riguardare 1.271 condannati attualmente all’ergastolo ostativo, cioè senza possibilità di revisione della pena, tra i circa 1.700 detenuti a questa forma detentiva. A introdurre il webinar per il lancio della riedizione anastatica del volume di Perucatti è stato un estratto di Fine pena mai, il documentario di Salvatore Braca dedicato ai due secoli di storia del carcere borbonico di Santo Stefano, proiettato alla Festa del Cinema nel 2020 (il cui trailer, con l'intervista allo storico locale Salvatore Schiano, illustra questo servizio, ndr).
Il professor Marco Ruotolo ricorda che Perucatti, direttore dal 1952 al 1960, volle applicare come norma operativa la giovane Costituzione, per superare l’allora vigente regolamento penale fascista del 1931. Al suo arrivo aveva definito il penitenziario borbonico «tomba dei vivi». Un luogo carico di storia, dove erano passati i patrioti risorgimentali Luigi Settembrini e Silvio Spaventa, gli antifascisti Umberto Terracini e Sandro Pertini. Proprio Settembrini avrebbe poi definito l’ergastolo «cieca e spietata vendetta, né utile né cristiana». La vicina Ventotene sarebbe stata luogo di confino durante il ventennio mussoliniano. «Quando arrivò a Santo, Stefano Perucatti creò un campo di calcio - ricorda Ruotolo - invitando per una radiocronaca Nicolò Carosio, ma anche un cinema aperto ai ventotenesi, e perfino una foresteria per i parenti in visita dove incontrare in modo riservato il familiare detenuto». A Santo Stefano il direttore visse assieme alla sua famiglia, moglie e dieci figli. Per il più piccolo scelse come bambinaio Pasquale, condannato all’ergastolo per uxoricidio.
Per Silvia Costa, Commissario straordinario del governo per il recupero dell’ex carcere, «Perucatti anticipò di vent’anni la riforma carceraria, rivoluzionando la vita di detenuti, secondini, familiari». Costa racconta del ventaglio di iniziative tese alla messa in sicurezza del singolare edificio penale, in vista di un recupero strutturale: carcere all’avanguardia per l'epoca, in tempi in cui gli ergastolani finivano spesso in micidiali celle sotterranee, è un panopticon con una pianta sovrapponibile a quella del coevo teatro San Carlo di Napoli che permetteva alle guardie il controllo visivo con uno sguardo di 99 celle, disposte a semicerchio su tre piani, come palchi teatrali. Tra i progetti allo studio ci sono la costruzione di un approdo sicuro, per permettere l’accesso continuo all’isolotto, oggi possibile quasi solo d’estate col mare calmo, poi un museo da intitolare a Perucatti, ma anche un centro di formazione civica europea per giovani, con annesse strutture ricettive, in sintonia con la vocazione europeista della vicina Ventotene. Cioè il luogo in cui Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, al confino politico, ebbero l’intuizione profetica di scrivere, già nel 1941, il Manifesto per un’Europa libera e unita. A riprova della portata innovativa del riformismo carcerario del direttore, Silvia Costa racconta come «a Santo Stefano in quegli anni arrivò una delegazione svedese per conoscere questa esperienza innovativa».
Concorda Giovanni Salvi, Procuratore generale della Corte di Cassazione: «È stato un innovatore, un uomo moderno, ma anche un uomo “antico”: è la fede cattolica che motiva Perucatti a interpretare la rieducazione come redenzione». Quando doveva rivelare l’ottenimento della grazia ottenuta per un detenuto, «faceva arrivare da Ventotene la Madonna pellegrina». Ed era convinto che un terzo dei detenuti non avrebbe dovuto essere lì, «perché condannati con riti processuali precedenti alla Costituzione, senza appello né attenuanti».
Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia, spiega che «Perucatti a fianco di Cesare Beccaria metteva don Antonio Rosmini e i santi». E sottolinea la sintonia attuale con la ministra di Grazia e giustizia Marta Cartabia: «Alle Commissioni in Parlamento la ministra Cartabia ha detto espressamente che la certezza della pena non è la certezza del carcere. Che, per la sua natura anti-socializzante, deve essere invocato come extrema ratio». Non fosse altro perché «la rieducazione, lo dicono le statistiche, serve a prevenire nuovi crimini».