Silvio Berlusconi si ritira dalla corsa per il Quirinale. Il centrodestra deve proporre un altro nome - Ansa
Berlusconi alla fine si tira indietro: «C’erano i numeri, ma ho deciso di compiere un altro passo sulla strada della responsabilità nazionale, rinunciando a indicare il mio nome per la presidenza della Repubblica», dice in una nota inviata a quel vertice di centrodestra, voluto da Matteo Salvini e Giorgia Meloni proprio per evitare ulteriori tentennamenti, da lui poi disertato e interrotto dopo una lite. «Continuerò a servire il mio Paese in altro modo evitando che sul mio nome si consumino polemiche o lacerazioni che oggi la Nazione non può permettersi. Da oggi - annuncia Berlusconi - lavoreremo quindi con i leader del centro-destra - che rappresenta la maggioranza nel Paese e a cui spetta l’onere della proposta - per concordare un nome in grado di raccogliere un consenso vasto in Parlamento».
L’identikit che indica è quello di «una figura capace di rappresentare con la necessaria autorevolezza la Nazione», ma non manca di rimarcare come «scelte fondamentali» l’«opzione europea e »quella atlantica», e la cosa suona come come un altolà agli alleati sovranisti. «Sono stato il primo a volere un governo di unità nazionale», rivendica, e l’auspicio è che la scelta del nuovo presidente si realizzi «nel tempo più breve possibile e con un’ampia convergenza». Quanto a Draghi, però, «completi la sua opera fino a fine legislatura per dare attuazione al Pnrr, proseguendo il processo riformatore».
E proprio questo è stato il punto più contestato da Fratelli d’Italia, nel corso del vertice senza Berlusconi, che alla fine ha delegato il "numero due" Antonio Tajani e Licia Ronzulli, responsabile per i rapporti con gli alleati. «Berlusconi rende un grande servizio all’Italia e al centrodestra, che ora avrà l’onore e la responsabilità di avanzare le sue proposte senza più veti dalla sinistra», dice sollevato Salvini. «Bene», commenta anche Fratelli d’Italia per il «senso di responsabilità» manifestato. Ma dal partito di Giorgia Meloni arriva un nuovo, secco no alla blindatura di Draghi fino a fine legislatura, che ha portato anche a un’interruzione della riunione.
Dietro questa, scontata, divergenza sul governo emerge però una divaricazione molto più insidiosa sulla figura da individuare. Se un nome di alto profilo ma di area, per tenere unita la coalizione, o bipartisan, sganciato dai partiti. La Lega fa sapere che lavora a una terna di nomi: forse Elisabetta Casellati, presidente del Senato, il suo predecessore Marcello Pera e l’assessora lombarda al Welfare, Letizia Moratti Nomi, già bocciati da tutti gli altri (da Letta a Conte e a Renzi), che tuttavia - oltre ad avere difficoltà sui numeri forse insormontabili - avrebbero l’effetto di far saltare gli equilibri molto fragili su cui si regge il governo Draghi. E in serata veniva alla luce un lavorio - nell’asse sotterraneo tra Fi, Coraggio Italia e Italia Viva - per sondare un ampio accordo su una figura navigata e trasversale come quella di Pier Ferdinando Casini, volendo andare su un "politico"; mentre se si dovesse andare su una figura prestigiosa sganciata dai partiti ci sarebbe sempre la soluzione Marta Cartabia. Una donna peraltro, su cui pure per Meloni sarebbe più complicato dire di no. Perde quota invece Giuliano Amato che pure era stata l’opzione portata avanti da Berlusconi nel 2015. «Né nomi né veti» sono stati fatti, assicura una nota di Fratelli d’Italia, in cui si conferma che il partito «non auspica in alcun modo che la legislatura prosegua».
Il vertice era stato preceduto da una fase di perdurante incertezza. Alle 16,30 c’era stata una riunione con i ministri azzurri: a loro il Cav. aveva detto «non ho ancora deciso». Ne era già venuta fuori la volontà comune di tenere Draghi a Palazzo Chigi. «La linea di Forza Italia è che nel governo non ci debbano essere né rimpasti, né nuovi ingressi», aveva sottolineato Tajani. Qualsiasi scelta tu faccia noi l’appoggeremo sino alla fine, era stato il coro unanime a Berlusconi.
«La realtà ha una scadenza. Va indicata una strada: o quella di Berlusconi o quella di una rosa di nomi», era poi intervenuto Maurizio Lupi, di Noi con l’Italia, presagendo la situazione in rapida evoluzione. Poi la decisione, maturata dopo aver «riflettuto molto, con i miei familiari ed i dirigenti del mio movimento politico», spiega Berlusconi. E forse proprio con quel passaggio della nota sull’europeismo e sulla durata della legislatura, il Cavaliere ha ottenuto quel che voleva: la "patente" per trattare lui, o comunque Forza Italia per lui, un nome che sia davvero bipartisan e compatibile con il prosieguo del governo Draghi. (Angelo Picariello)
E nel centrosinistra spunta il nome di Andrea Riccardi
Nel quartier generale del Nazareno, Enrico Letta attende, con poche speranze, l’esito del vertice di centrodestra. E quando arriva la notizia della ritirata del Cavaliere, il segretario del Pd sa già quello che seguirà: il veto su Mario Draghi - che Berlusconi vuole continui il lavoro a Palazzo Chigi - e l’annuncio di un nome già "in caldo", su cui i dem sono pronti a dire di no. Al punto che viene ripescata un’ipotesi sinora scartata, quella di affrontare le prime chiame con un nome condiviso con i 5s: il nome su cui si ragiona è quello di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio.
«È una questione di metodo», insistono nello staff del leader Pd, che oggi potrebbe incontrarsi con Matteo Salvini. Un nome o una rosa degli avversari vedrebbe l’impossibilità per l’ex professore di Science Po di sedersi al tavolo. La «figura terza» di cui ha sempre parlato il segretario del Pd non si pesca in uno dei due bacini, ma deve essere concordata. L’unica possibilità che aveva Berlusconi era di intestarsi Draghi. Così Letta non ci sta.
E però il dialogo tra Fdi, Lega e Fi con i giallo-rossi sembra l’unica via di uscita per mettere al riparo la legislatura, ma soprattutto un esecutivo che sta traghettando in salvo il Paese. E allora, decisi a non lasciare il pallino nelle mani del centrodestra, Pd e 5 stelle studiano una strategia.
«Era tempo che si sgombrasse il campo da un nome divisivo – spiega dai dem Walter Verini –. Ora si trovi un nome di altissimo profilo morale e internazionale». E in attesa di un incontro tra Letta e Salvini, Verini spiega: «Il segretario Letta tiene i contatti con gli interlocutori. La compattezza c’è, se si lavora per l’interesse del Paese». Dando dunque per assodato che «nessuno ha la maggioranza e i numeri per decidere in questo Parlamento», a questo punto bisogna individuare «un presidente super partes di unità nazionale, sostenuto da una maggioranza larga almeno tanto quanto quella che sostiene l’attuale esecutivo, e un patto di legislatura. Si ragioni su questo in una fase così complessa della vita repubblicana», dicono al Nazareno.
Molto più soddisfatto è Giuseppe Conte, per il quale pure «la candidatura di Berlusconi era irricevibile», e vede ora «un passo avanti» verso «un serio confronto tra le forze politiche per offrire al Paese una figura di alto profilo, autorevole, ampiamente condivisa». Ma a differenza del Pd, il leader dei 5 stelle non si rammarica affatto del veto su Draghi, che i pentastellati non hanno messo solo perché pressati dal Pd (e dall’ala di Di Maio): di fatto, tra i grillini c’è sempre stata una forte preoccupazione che un trasloco del premier al Quirinale possa mettere fine alla legislatura. Dubbi emersi anche nella cabina di regia convocata ieri da Conte, che oggi vedrà i grandi elettori 5 stelle, dopo un nuovo vertice con Enrico Letta e Roberto Speranza.
Se dunque, per il Movimento, il premier fermo a Palazzo Chigi è una garanzia, Letta vede allontanarsi il suo piano di portare Draghi al Quirinale e metterlo «in sicurezza». E se il piano fallisce, al Nazareno si teme un ripensamento dello stesso premier, che non sarà indifferente a chi sostituirà Mattarella. Perché solo una figura di grande prestigio potrebbe garantire il suo esecutivo, che a breve sarà messo alla prova dall’inizio della campagna elettorale. (Roberta D'Angelo)