Sapete a che cosa serve la pubblicità del gioco d’azzardo? «A informare e traghettare i giocatori verso il gioco legale» (Cino Benelli). Un divieto assoluto sarebbe poi una tragedia: «Accadrebbe quello che è accaduto con il fumo – dice seria Imma Romano del Codere Italia (network di sale bingo e
gaming hall) –. Non avere ben chiari quali sono i marchi disorienta il consumatore, che non ha ben chiaro chi sono e dove sta andando». Chi pensava che la pubblicità, come tutto l’advertising, serva a sedurre e catturare clienti, e fidelizzarli, rimane perplesso. Ma è l’esito fatale di un convegno fatto al 90 per cento di avvocati e di operatori dell’azzardo, meticoloso e meritevole nel descrivere normative e casi di spot bocciati e assolti (con Vincenzo Guggino e Massimo Tavella dello Iap, l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria), ma capace di parlare di pubblicità, presentando le ragioni della sua inevitabilità e perfino della sua bontà, senza una voce che sia una a presentare le ragioni di chi, caparbiamente, ne chiede forti limiti e anche l’abolizione totale, proprio come per il fumo o i superalcolici. Il convegno di ieri pomeriggio è stato organiz- zato da un raro caso virtuoso di collaborazione tra dipartimenti universitari fiorentini, quelli di Scienze politiche e sociali e di Scienze della salute, che ha dato vita all’unità di ricerca 'Nuove patologie sociali', coordinato da Massimo Morisi e Franca Tani dell’ateneo fiorentino, rispettivamente presidente del corso di laurea in Scienze politiche e ordinario di Psicologia dello sviluppo e Psicologia dell’educazione. Tema dell’appuntamento di Villa Ruspoli: 'Il gioco d’azzardo nella pubblicità. Tra autodisciplina e compiti dell’autorità di garanzia'. Norme e regole, più o meno chiare e soprattutto applicabili, sono state snocciolate con grande competenza da Anna Carla Nazzaro (ordinario di Diritto privato all’Università di Firenze), Benedetta Liberatore di Agcom e Ester Di Napoli (ricercatrice in Diritto internazionale all’Università di Padova). Nazzaro accenna, ma avendo l’eleganza di non affondare il colpo, alle contraddizioni che stanno alla radice del fenomeno, nel linguaggio dei documenti italiani ed europei, i quali permettono il gioco «in cui è prevalente l’abilità non aleatoria», definizione che con disinvoltura permette tutto, anche ciò che è affidato esclusivamente al caso. Benelli, avvocato e membro dell’unità di ricerca, ammette, chissà quanto a malincuore, che stando alle carte europee «non sussiste la necessità di un divieto generalizzato» della pubblicità e che nessun Paese che abbia analogie al nostro prevede. Liberatore, sempre riguardo l’Europa, lamenta invece la mancanza di una «disciplina organica» e l’impotenza di fronte a Internet. Romano del Codere annuncia soddisfatta che grazie alla responsabilità di gestori e concessionari la presenza dei minori nelle sale è pressoché azzerata; peccato non ricordi che il 37 per cento degli studenti minori gioca comunque d’azzardo più o meno regolarmente, ma sul web. Fa sfoggio anche di responsabilità quando dice di non sottovalutare il rischio dell’azzardo patologico, ma non può non sapere che la metà del fatturato dell’industria dell’azzardo proviene proprio dai malati di ludopatia, dei quali diventa davvero difficile fare a meno. Tante piccole contraddizioni che solo l’intervento finale di Franca Tani cerca di far emergere. Ci pensa lei a ricordare che i minori giocano eccome, e che per prevenire la patologia occorre fare rete. Dovremo forse aspettare gli stati generali dell’azzardo, auspicati da Morisi. Intanto la voce, almeno una sola, contro la pubblicità brilla per la sua assenza.