Il cardinale Martini con il sindaco Albertini nel 2000 - Ansa
Il 31 agosto ricorrono i 10 anni dalla scomparsa del cardinale Carlo Maria Martini. Anche quest’anno la Chiesa ambrosiana onora la memoria dell’arcivescovo e lo fa ricordando con lui anche quanti lo hanno preceduto e seguito. Il 30 agosto l’arcivescovo Mario Delpini celebrerà una messa in cui verranno ricordati anche i cardinali Alfredo Ildefonso Schuster, Giovanni Colombo e Dionigi Tettamanzi. L’appuntamento è in Duomo alle ore 17.30, nel giorno della memoria liturgica del beato Schuster che coincide con la sua morte avvenuta il 30 agosto del 1954. Schuster era arcivescovo di Milano dal 1929 e aveva attraversato con la città gli anni bui della seconda guerra mondiale.
Presieduta dall’arcivescovo, Mario Delpini, la Messa, concelebrata dai membri del Consiglio Episcopale Milanese, dai Canonici del Capitolo metropolitano e da padre Carlo Casalone, presidente della "Fondazione Martini". Nell’anno in corso ricorrono anche i 5 anni della scomparsa del cardinale Dionigi Tettamanzi che resse la diocesi dal 2002 al 2011 e il trentesimo anniversario della morte del cardinale Giovanni Colombo che, dal 1963 al 1979 resse la diocesi avendo preso il posto dell’arcivescovo Giovanni Battista Montini diventato Paolo VI. Dirette sui social www.chiesadimilano.it e DuomoTv.
(Annamaria Braccini)
«I gesuiti ci hanno insegnato la responsabilità» ovvero «l’essere rigidi nei principi ma duttili nei comportamenti». Così l’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini, ricorda la figura del cardinale Carlo Maria Martini a dieci anni dalla scomparsa. Un rapporto quello tra Martini e Albertini che è sempre stato intenso fatto di "affectio cordis" e di insegnamenti che, dice ancora l’ex primo cittadino del capoluogo lombardo, erano frutto da parte del cardinale del saper associare «alla sua esperienza umana, religiosa e di pastore d’anime quella mia più modesta di sindaco di Milano. E del mio intento di voler gestire le responsabilità di governo seguendo quanto affermato da san Paolo VI: “La politica è la più alta forma di carità”».
Albertini, quando incontrò per la prima volta il cardinale Martini?
Appena eletto sindaco di Milano nel 1997. Lui di fronte al mio sconcerto per quello che mi stava accadendo cercò di confortarmi. “Lei crede in quello che pensa e fa quello che dice ma solo fino a quando potrà farlo. In questo senso, mi sento di dire, che non so se il ruolo che ricopre è fatto per persone come lei”. Un conforto un po’ ruvido e la convinzione condivisa anche da me di essere un pesce fuor d’acqua, “non adatto”. Proprio da quel primo nostro incontro decisi di scrivere subito la mia lettera di dimissioni irrevocabili da sindaco - senza data - con la convinzione del fatto che non avrei mai accettato un tradimento del patto con i cittadini (lo scritto era custodito nel primo cassetto della scrivania del primo cittadino a Palazzo Marino, ndr).
C’è stata qualche decisione che ha preso come sindaco in cui il suo rapporto con Martini ha influito?
Io andavo spessissimo a trovarlo. Lui però - da gesuita - non ha mi ha mai detto cosa dovevo fare ma mi ha messo sempre nelle condizioni di discernere: di focalizzarmi sull’essenza delle cose. L’ho scritto anche a Mario Draghi recentemente, che come me ha ricevuto educazione e istruzione dai gesuiti: vivere “col piede levato” e “todo modo para buscar la voluntad divina!” come diceva sant’Ignazio di Loyola. Martini mi metteva - quando gli prospettavo situazioni politiche o amministrative complesse - davanti allo scenario lucido. Per me è stato è stato un padre spirituale e anche un padre politico.
Un’opera concreta frutto del vostro rapporto?
La Casa della Carità a Milano: mi espresse la sua volontà di realizzare un “rifugio per gli ultimi”. Mi chiese la disponibilità di una struttura che come Comune concedemmo. Poi con un fare molto gesuitico proposi che per i primi 3 anni l’amministrazione comunale raddoppiasse i denari che la Casa della Carità avrebbe raccolto con le donazioni a favore dei poveri. Il cardinale ed io avevamo ripetuto a distanza di quattro secoli quello che è avvenuto con il Civico Tempio di San Sebastiano. Sono due realtà dove l’autorità religiosa e quella civile si sono trovati insieme per il bene comune, perché la carità applicata e vissuta qui a Milano è uno stile di vita.
Quando consegnò la grande medaglia d’oro di Milano al cardinale lui tenne un discorso poi diventato celebre: “Paure e speranze di una città”…
Secondo me quello è il manifesto del buon amministratore e del buon politico, dove il concetto di Carità è quello di Sant'Agostino (nel De Civitate Dei, ndr) poi ripreso anche da Alberto Magno ma anche quello di san Paolo VI. In quel discorso c’era proprio la sintesi della milanesità: “coeur in man”, “laurà sempre”, “mai content”, “fa i rob giust”.
Lei incontrò Martini per ben tre volte a Gerusalemme. Come fu vedervi fuori da Milano?
Uno di questi incontri fu molto emozionante e toccante. Camminammo lungo uno dei percorsi della Natività e ci recammo insieme al sepolcro di Gesù, lì recitammo il “Padre nostro”. Noi due da soli, in un piccolo spazio, dove sembra di essere immersi in un “liquido amniotico spirituale” all’origine della cristianità.
Un altro ricordo per lei significativo?
Il giorno del suo 77esimo compleanno lo ha passato con me e solo con me. Era a Galloro, località nel comune di Ariccia, nell’area dei Castelli Romani, dove c’era una residenza dei Gesuiti. Dopo la Messa siamo andati a pranzo a Rocca di Papa, dove mi ha fatto un discorso molto profondo sul significato di quel giorno per lui ricco di ricorrenze. Una conversazione bellissima di cui ne custodisco un bellissimo ricordo.
Perché l’arcivescovo Martini è ancora così amato?
“Quello che sono diventato lo devo a Milano ma quello che sono, quello che è il mio carattere, lo devo a Fucecchio”. Pure Martini ha incarnato questa frase di Indro Montanelli. I miei due maestri, Montanelli e Martini, con la M come Milano, entrambi insigniti della grande medaglia d’oro della città, di cui ho beneficiato della loro amicizia e dei loro insegnamenti. Martini arrivava da Torino, era un biblista, per fare l’arcivescovo a Milano come sant’Ambrogio fu strappato ad altro. Ora però lo si ricorda per essere stato soprattutto l’arcivescovo di Milano. Per cui anche lui non si sentiva adatto in qualche modo, quando è stato chiamato. Perfino quel suo modo di porsi con distacco piaceva. Non era un uomo per le moltitudini però non esagerava, parlava il giusto e anche questo è molto mittleuropeo, molto ambrosiano, molto austroungarico e molto milanese. Per questo è ancora ricordato e amato.
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