Adozione incrociata da parte di coppie dello stesso sesso: il Tribunale di Milano dice no, contestando l’opposto orientamento "creato" dal tribunale minorile di Roma e poi confermato dalla Cassazione.
Quello finito sotto la lente dei magistrati milanesi non era un caso del tutto nuovo. Due donne conviventi, legate da una relazione affettiva, avevano ottenuto con l’eterologa una figlia ciascuna. Poi si erano rivolte ai giudici, perché le dichiarassero madri adottive l’una della figlia dell’altra. La strada sembrava spianata: già la Suprema Corte si era pronunciata su un caso simile, e la sentenza era stata un "sì" incondizionato. Ma Mario Zevola e Antonella Brambilla, rispettivamente presidente e relatore del collegio giudicante milanese, hanno negato l’adozione. E per farlo hanno contraddetto integralmente le precedenti decisioni.
Fondamento di quelle pronunce era l’articolo 44, lettera D, della legge 184/83: quello che consente l’adozione (sia pur «non legittimante») a persone non coniugate, ogniqualvolta «sia constatata l’impossibilità di affidamento preadottivo». La norma pensava – per capirci – a bimbi affetti da gravi malattie, quindi difficilmente “interessanti” per una coppia dotata dei presupposti di legge. Ecco allora la domanda: ma cosa c’entra questo con le adozioni tra persone dello stesso sesso? C’entra, almeno secondo i magistrati romani: nella loro lettura, infatti, la circostanza per cui i figli di coppie lesbiche che richiedevano l’adozione "incrociata" non versavano in stato d’abbandono rendeva impossibile il loro affidamento preadottivo. Dunque, nei confronti delle ricorrenti, pareva ai giudici indicata l’adozione "speciale".
Ma diversi giuristi avevano fin da subito esposto le loro perplessità, evidenziando come una simile interpretazione snaturasse la norma, "piegandola" a fini del tutto estranei a quelli voluti dal legislatore. La questione era prettamente logica: come si poteva concedere un’adozione, muovendo da un presupposto – l’esistenza di un genitore, appunto – che per diritto e senso comune la rendeva incompatibile? Ora a dirlo è un collegio giudicante in una sentenza che bolla questa estensione come «inammissibile». Spingendosi addirittura a definirla ispirata da una «interpretazione creativa». E laddove le precedenti pronunce avevano invitato a valutare il caso concreto nell’interesse del minore (per esempio, assumendo informazioni sulla capacità genitoriale delle ricorrenti), i giudicanti presieduti da Zevola sottolineano che questo parametro «non è l’unico» da considerare. E che, anzi, il risultato a cui porta «esorbita dal consentito», con il paradossale risultato di pronunciare «un’implicita affermazione di irrilevanza del sistema normativo». In parole povere: la legge c’è ed è chiara. Così, interpretarla come hanno fatto Tribunale minorile di Roma e Cassazione significa snaturarla, tanto più che l’impianto normativo sulle adozioni «non è stato modificato dalla recente legge Cirinnà», e che anche la Corte europea dei diritti dell’uomo «non ha mai stabilito che esista un diritto all’adozione convenzionalmente tutelato». Al contrario, si legge in sentenza, nella visione di Strasburgo «ciascun legislatore nazionale può stabilire» al riguardo «un determinato regime», e le nostre norme prevedono «un più ampio accesso ai coniugati rispetto ai conviventi o ai single». Tutto ciò non discrimina le coppie dello stesso sesso: l’ha detto l’Europa, lo ribadiscono ora i magistrati milanesi.