Adam è quello a destra, con la maglietta rossa
Per due lunghe sere, lo scorso ottobre a Smirne, sulla costa occidentale della Turchia, avevano raccontato ad Avvenire i dettagli del loro viaggio, i progetti, i costi, persino gli accordi presi con i trafficanti, quelli di cui aspettavano da un momento all'altro la chiamata, rigirandosi il cellulare fra le mani. Abdinasir e Adam, entrambi trentenni, amici di nazionalità somala, attendevano il momento giusto per salire su un gommone e attraversare, in piena notte, il tratto di mar Egeo che li separava dall'isola greca di Lesbo, porta d'ingresso per l'Europa. Già centinaia di migliaia di persone avevano fatto lo stesso prima di loro, all'imbocco della rotta migratoria attraverso i Balcani che da anni è la via più battuta per il vecchio continente.
Ai due amici avevamo chiesto se fossero consapevoli delle condizioni terribili in cui versano i campi rifugiati dell'Egeo, in particolare quello di Moria a Lesbo, il peggiore hot spot di identificazione che l'Unione Europea sia riuscita a mettere in piedi, con 19mila persone in un'area che dovrebbe accoglierne 2.800. «Certo, ma non ci resteremo a lungo» ci aveva risposto Abdinasir, anche per conto dell'amico che non parlava inglese.
Non è stato così, almeno non per Adam. In questi ultimi sette mesi, in attesa che le autorità analizzassero la sua domanda d'asilo, è sempre rimasto sull'isola, al campo o ricoverato all'ospedale del capoluogo Mitilene, affetto da gravi problemi cardiaci. Tre sono stati i ricoveri, ma poi è sempre stato rimandato nella sua tenda igloo piantata nel fango, dove ha passato un inverno con temperature sotto lo zero, piogge torrenziali, servizi igienici ridottissimi, acqua fredda, file per il cibo, risse, accoltellamenti e persino attacchi anti-migranti di frange estremiste locali.
Alla fine, mercoledì 29 aprile, Adam si è accasciato fra le tende ed è morto. “Infarto”, ci ha comunicato un operatore di Kitrinos Healthcare, il presidio medico di volontari che ha ricevuto il referto dall'ospedale. «Aveva decine di documenti rilasciati dai medici sulla sua patologia cardiaca, con tutti gli incartamenti siamo andati ripetutamente alla “Reception” (le autorità greche addette all'immigrazione, ndr). L'hanno sempre ignorato» ci dice l'amico Abdinasir che non si dà pace. Anche nel caos di Moria, esistono specifici programmi per il trasferimento dei malati e dei casi più vulnerabili: com'è possibile che Adam, dopo tre ricoveri, fosse ancora nella sua misera tenda, senza medicinali? «Abbiamo centinaia di persone nelle stesse condizioni» è la risposta di un operatore di Kitrinos.
Ora dal 3 maggio, a seguito delle pressioni della Commissione Europea, preoccupata che l'emergenza da coronavirus trasformi i campi in una bomba di contagi, il governo greco ha avviato una serie di trasferimenti verso la terraferma. Si conta di far partire 2.380 richiedenti asilo sul totale dei 38.300 bloccati nelle isole. «Hanno cominciato a trasferire ogni domenica gruppi di persone, anche individuandole dalla nostra lista di malati cronici, più altri casi di vulnerabilità, come le donne incinte», dicono da Kitrinos.
Non sappiamo se Adam fosse su quella lista o su quella dell'Acnur o delle autorità greche. Oggi non fa alcuna differenza per lui, per la moglie Mulki e per i suoi cinque figli, che si trovano a centinaia di migliaia di chilometri dal padre. Adam resterà nel cimitero di quell'isola che avrebbe dovuto essere solo la prima tappa per una vita nuova, l'unico lembo di Europa che, invece, gli sia stato concesso di vedere.