«Aprite la frontiera». È l’urlo disperato dei circa duecento migranti assiepati lungo il valico di frontiera di Maljevac, tra la Bosnia-Erzegovina e la Croazia. Notti passate all’addiaccio nel tentativo di sfondare il cordone della polizia croata e proseguire così il cammino verso l’Europa. Uomini per lo più, ma anche donne e bambini, soccorsi dalla popolazione locale che ha offerto loro cibo, bevande, coperte. La polizia ha cercato di convincere i migranti a sgomberare le tende piantate ai bordi della strada, ma loro non ne vogliono sapere nulla di andare via. Temono l’arrivo dell’inverno, quello freddo dei Balcani. Finora la Bosnia ha faticato a trovare una soluzione soddisfacente per dare alloggio ai migranti in transito nel Paese.
Diciannovemila dall’inizio dell’anno, secondo il ministro della Sicurezza, Dragan Mektic. Un incremento vertiginoso se li si paragona ai circa 700 del 2017. Solo due i centri di accoglienza allestiti finora. Un terzo è stato aperto in questi giorni nell’ex caserma di Hadzici, a sud est della capitale. Centri di accoglienza che rimangono in parte deserti, troppo lontani come sono da quel confine che i migranti sperano di oltrepassare. Così il peso dell’emergenza è ricaduto quasi interamente su Bihac e Velika Kladusa, le due cittadine di frontiera nel cantone di Una-Sana, nella Bosnia nord-occidentale. È la nuova giungla nel cuore d’Europa dopo Calais, Moria, Idomeni, Lampedusa. Non si sa per certo quanti ve ne siano. Dai tremila ai cinquemila, la stima. Ma di centri di accoglienza qui non vi è nemmeno l’ombra.
Le famiglie vengono sistemate all’hotel Sedra, poco distante da Bihac, uno stabile abbandonato e in parte ristrutturato dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Iom). Per gli altri solo alloggi di fortuna, come quello del Dom Borici, un ex studentato senza porte né finestre né servizi igienici dove vivono accampati un migliaio di migranti. O la tendopoli di Velika Kladusa, che nei giorni di pioggia prende le sembianze di un’immensa pozzanghera disumana. I più fortunati possono permettersi un tetto in residenze private al costo di 3-4 euro a notte. Tanti invece non hanno altra scelta che dormire in strada tra un tentativo di fuga e l’altro. E proprio a Bihac la popolazione locale ha mostrato i primi segni di insofferenza, sfinita dall’afflusso ininterrotto dei migranti. Negli ultimi giorni centinaia di abitanti sono scesi in piazza per chiedere allo Stato una risposta efficace all’emergenza abitativa che sta colpendo la città di frontiera. Manifestazioni pacifiche culminate nel blocco della ferrovia e della strada che collega Bihac a Sarajevo per impedire l’accesso alle centinaia di rifugiati che si riversano ogni giorno in città. Una questione che è diventata anche di ordine pubblico.
Risse tra i profughi, furti e rapine ai danni dei residenti riempiono ogni giorno le pagine dei quotidiani locali. In risposta le autorità di Sarajevo hanno imposto ai profughi il divieto di ingresso nel cantone di Una-Sana, mentre i migranti che già si trovavano lì si sono messi in marcia verso il confine. Lo hanno fatto più volte in questi mesi, alla spicciolata. The game, lo chiamano. Il gioco. Vai, provi, ritorni al punto di partenza. Così finché non passi dall’altra parte. Forti del loro numero, i migranti provano ora ad attraversare gli ultimi cento metri che li separano dalla terra promessa, sfidando violenze e respingimenti indiscriminati. Hanno bisogno di un Paese e di diritti, si legge sui cartelli che brandiscono. Ciò che per ora l’Europa non sembra intenzionata a dare. Una bambina dorme su un prato appena fuori Bihac, in Bosnia