Come si vive in Russia l’anniversario della rivoluzione del 1917? Lo chiediamo a Vladimir Zelinskij, appena rientrato da Mosca. Un buon osservatorio, quello di questo presbitero dell’Esarcato russo del patriarcato di Costantinopoli. Studioso del pensiero filosofico e religioso già in era sovietica, nato nell’ex Urss, ma in Italia dal 1991 dove ha insegnato per vent’anni lingua e civiltà russa all’Università Cattolica. Zelinskij, noto per diversi libri e per gli incontri con Giovanni Paolo II e il cardinal Ratzinger, ci incontra a Brescia dov’è parroco. «Le lezioni della storia sono necessarie per riconciliare, rafforzare l’armonia politica, sociale e civile», aveva detto Putin in dicembre, invocando un’analisi onesta del 1917.
È vero che lassù questo anniversario viene un po’ rimosso, che le celebrazioni sono sottotono?
«Mosca oggi s’interessa più della ricostruzione delle strade e degli edifici dell’epoca chrušcëviana che del centenario della rivoluzione. Lo stato d’animo dei moscoviti, da quanto ho percepito, si può esprimere così: se volete rubare i nostri soldi, rubate pure, ma lasciate in pace la nostra città. Resta il dato che la festa più importante dello Stato è quella del 9 maggio, la vittoria sulla Germania nazista, festeggiata con solennità liturgica crescente ogni anno. È il trionfo del 1945 a fare da pietra d’angolo dell’identità e del consolidamento del regime attuale. Invece il ’17 è l’anno della divisione che Putin vorrebbe svalutare perché la società compatta è più governabile».
«Il centenario va commemorato sì, ma non celebrato, né festeggiato. Va capito per tirare le somme e trarne insegnamenti», dicono alcuni intellettuali russi. Lei quali somme tira e quali insegnamenti trae?
«Esiste la Russia putiniana e teledipendente, quella della maggioranza, e la Russia antiputiniana della minoranza. Le due non sono d’accordo in nulla – Ucraina, Crimea, Occidente, corruzione, ecc. – tranne una parola: “catastrofe”. Così indicano la rivoluzione del ’17. Per motivi vari, però. La distruzione dell’impero unito e potente nel primo caso; la nascita del mostro cannibalistico basato sull’odio nel secondo. Un disastro quasi per tutti tranne gli ultimi comunisti, con un elettorato sotto il 20%. Dal mio punto di vista la rivoluzione ha generato il regime ideologico, che è molto di più che la semplice dittatura: la popolazione ha vissuto non solo sotto il pugno di ferro, ma sotto il potere assoluto delle dottrine, delle promesse, delle parole che hanno sostituito la realtà. La fede nel futuro felice, però, non può vivere sempre quando il futuro piano piano diventa il presente non tanto felice. Secondo me, la morte del regime durante la perestrojka era inevitabile, quasi nel senso biologico: le idee diventate idoli prima o poi muoiono».
Sino a quando il popolo russo ha celebrato credendoci in quella rivoluzione? Ha smesso alla fine degli anni ’80 con la perestrojka, con l’apertura degli archivi sugli orrori del regime o già prima?
«Attenti con la parola “credere”. Sì, il marxismo nella sua versione sovietica – riscaldata dalla fiamma apocalittica annidata nell’anima russa – ha proposto una certa formula per questa fede. Lo Stato-credo, il padrone totale del Paese, ha potuto giustificare le sofferenze che ha imposto e i crimini che ha commesso, ma la fiamma si è spenta e il credo di ieri è diventato un lin- guaggio pratico comune… Che ha creato il quadro del mondo manicheo con la condanna del passato zarista e l’elogio smisurato della rivoluzione come vera madre della patria, l’accerchiamento ostile dei Paesi imperialisti, la prospettiva dell’avvenire radioso, ma sempre rimandato. Non chiamerei il prodotto di questo linguaggio ideologico una fede nel senso proprio. Quando la perestrojka ha proposto un modo d’espressione più libero e critico, quel quadro è crollato... Ma era marcio da tempo».
Da quanto?
«Ha giocato un ruolo chiave già il XX congresso del Partito comunista, nel 1956. Allora alcuni comunisti convinti, anche se avevano subito le torture e i campi staliniani, furono sconvolti quando queste cose uscirono. Poi, trent’anni dopo, lo smascheramento delle atrocità del regime ha contribuito molto alla sua fine. Infine è arrivata la democrazia ma a modo nostro: associata nella memoria dell’uomo della strada non tanto al multipartitismo e alla libertà, ma al saccheggio quasi non dissimulato del Paese, alla criminalità, alla corruzione, all’arricchimento incredibile di pochi e all’impoverimento di altri… E il discorso sugli orrori ha perso il suo vigore, la sensibilità si è indebolita; i vecchi si sono rassegnati, ai giovani poco importa del tema. Esiste una associazione, “Memoriale”, che parla ad alta voce sui crimini del passato, ma è un fenomeno marginale. Di più: il “Memoriale” è ufficialmente dichiarato “un agente straniero”; parlare del passato così macabro non contribuisce alla gloria del regime d’oggi. La Russia ha perso l’opportunità di fare il suo processo di Norimberga e questo processo mancato lascia un grande ombra sul suo presente e anche sul futuro».
A Mosca però l’iconografia della rivoluzione resta sullo sfondo della vita quotidiana: dalla “mummia” di Lenin sulla Piazza Rossa alle scene nelle stazioni della metro.
«Uno storico della rivoluzione ha detto che se i russi sapessero tutta la verità su Lenin, in Russia non rimarrebbe un solo monumento per lui. Magari. Per ora la simbolica del passato è quasi intoccabile. Per rompere con questi nomi e simboli (non solo Lenin) bisogna assumere una decisione radicale che non interessa al potere attuale. Anzi, c’è un motivo più valido per non rompere, perché nelle ex repubbliche sovietiche diventate stati pro-occidentali il processo della decomunistizzazione ha preso il carattere di sfida dimostrativa all’eredità russa-sovietica. E in Russia il potere difende quest’eredità e punisce coloro che vi attentano. Ma c’è anche un fatto paradossale: all’improvviso è venuta fuori la rivalità tra Lenin e Stalin, da cui Stalin esce vincitore. Lenin è ribelle e distruttore, Stalin è costruttore della potenza mondiale. Nei luoghi pubblici si vedono sempre più immagini di Stalin».
E in questa cornice la Chiesa ortodossa cosa dice?
«Anche nei micidiali anni ’30 la Chiesa ortodossa in Russia non ha evitato gli “abbracci malati”, almeno nelle parole, e sarebbe difficile immaginare il suo allontanamento dallo Stato – qualunque modello – anche nel futuro. Non dobbiamo confondere però le dichiarazioni degli alti dignitari ecclesiastici con il fiume delle preghiere dei fedeli nelle parrocchie. All’epoca, quando quasi tutte le parrocchie furono chiuse, quel fiume percorreva la sua strada segreta: nelle catacombe e nei focolari umani».