Oksana Zabužko - -
Seamus Heaney la definiva redress: riparazione, rimedio, compensazione. È la resistenza interiore che la poesia infonde nell’animo del suo autore, outsider metafisico. Heaney faceva, inoltre, riferimento alle parole di Robert Pinsky, tratte dal saggio Le responsabilità del poeta: «Un artista non necessita tanto di un pubblico, quanto di sentire un bisogno di rispondere, una promessa di reagire». Non c’è dubbio che sorge sotto questi auspici la lirica ucraina contemporanea, di cui Lo Specchio Mondadori presenta oggi una corposa tranche grazie al volume Poeti d’Ucraina (a cura di Alessandro Achilli e Yaryna Grusha Possamai, pagine 264, euro 20,00), un 'panorama testuale' suddiviso in sei sezioni - aperte da altrettanti cappelli introduttivi - e spalmato tra gli anni Sessanta del secolo scorso e il maggio 2022. Come notano i due curatori, si tratta di una forza tesa a «non sottovalutare l’aspetto profondamente umano, concreto, sanguigno della scrittura poetica, che è tutt’altro che un semplice divertissement avulso dalla realtà». Sin dalla prima parte dell’antologia, che riguarda il poeta e dissidente ucraino Vasyl’ Stus e la letteratura civile, è possibile leggere in controluce la lotta per la libertà e persino «il simbolo della fuoriuscita dell’Ucraina dall’oppressione sovietica». Dissidente classe ’38, detenuto per tredici anni nel gulag Perm-36, poeta di afflato modernista, Stus fonde l’esperienza romantica di Taras Ševcenko con la tradizione tedesca klassische Moderne e l’«esplorazione di quel multiforme e fragile spazio che è l’io». Ecco un buon esempio: «Cento specchi proiettati su di me, / sulla mia solitudine e mutezza. / Veramente - qui? Sei veramente - qui? Forse, / non è qui che sei. Non qui. / Dov’è che sei? Ma dov’è che sei? Ma dove? / Un precipizio? Un tornante? O uno zigzag? / Eccola, la pioggia tanto attesa. A catinelle. / Bagna l’anima, l’anima in lacrime».
Ostap Slyvyns’kyj - -
La seconda carrellata descrive la cosiddetta Scuola di Kyjiv (cioè Kiev), «un gruppo di poeti nati negli anni Quaranta, provenienti da diverse parti dell’Ucraina, dal profondo ovest fino a Luhans’k, studenti nella Kyjiv degli anni Sessanta ». Il comun divisore di questi autori acri e vibranti è la concezione dell’arte come strumento ostinatamente 'ermetico', cioè capace di non lasciarsi catturare dall’opacità cianotica del linguaggio propagandistico (si osserva qui una tangenza con la Nowa Fala polacca del primo Zagajewski). Tra le personalità citate emerge Mykola Vorobjov e la tensione cristallina, immacolata dello spirito-finestra: «La finestra soffre di brina. / La pulisco e vedo sempre quella strada. / Pulisco me stesso, risplendo. / Il vetro sbrinato sono io che guarisco». Il terzo segmento è a cavallo tra la perestrojka e il disastro di Cernobyl’, con l’effervescenza postmoderna portata dai visimdesjatnyky (i 'poeti degli anni Ottanta'), ovvero il visionario Hryc’ko Cubaj, l’elegiaca Natalka Bilocerkivec’, l’analogo estro ironico di Oksana Zabužko e Ihor Rymaruk. La quarta parte della silloge, invece, si affaccia sul nuovo millennio dall’angolatura privilegiata dei caffè letterari di Kiev, Leopoli e Charkiv. Qui incomincia la rarefazione e l’eterogeneità delle voci, impegnate in un’assorta ricerca dell’identità. In linea con le acquisizioni internazionali, «la poesia diventa un collage, un modo di esprimersi, o la realizzazione di un impulso, affermano ancora i curatori, come quella di Ostap Slyvyns’kyj, di Marianna Kijanovs’ka e di Kateryna Babkina, senza però slegarsi del tutto dalla tradizione [...]. Tra i versi di Anatolij Dnistrovyj, Oleh Kocarev e Serhij Žadan penetrano il lessico quotidiano, lo slang, i neologismi».
Oleh Kocarev - -
Žadan, in particolare, è probabilmente il germoglio più florido dell’attuale selva letteraria; scrive così in Dinamo Charkiv: «L’inverno sembra durare più / del previsto. Con le suole a marcare / i confini del disgelo, che arriva mesto / alle zone frontaliere del paese. / Pioggia fiacca - aspro siero / dal corpo di Dio. Facce crepuscolari». Arriviamo all’anno zero della guerra, il 2014, con la quinta e nutritissima sezione, costituita da un frammentato coro di poeti, tutti però accordati sul trauma del conflitto del Donbass. La giovane Ija Kiva, per esempio, racconta secondo un ritmo sincopato e tenebroso «la sorte dei rifugiati interni, costretti a lasciare l’Ucraina orientale per stabilirsi in altre zone del paese». L’ultima porzione di testo è dedicata ai componimenti scritti dopo il 24 febbraio 2022. Si fa sempre più nitida l’impressione che il linguaggio della poesia - così prossimo all’interiezione, alla sincope, al silenzio - sia l’unico in grado mettere su carta l’immediato sgomento della devastazione e, poi, l’energia perpetuatrice della vita, come accade nella significativa, ungarettiana lirica di Viktorija Amelina: «Non scrivo poesia / Scrivo prosa / Ma la realtà della guerra / si mangia la punteggiatura / la coesione dell’intreccio / la coesione / si mangia / Come se sulla lingua / fosse caduta una granata // I frammenti di lingua / sembrano poesia / ma non lo sono // E anche questa non lo è / Lei è a Charkiv / Fa la volontaria».