mercoledì 28 giugno 2023
I criteri per il ricovero in terapia intensiva, le scelte dei politici, l’obbligo vaccinale, le restrizioni sociali...«Ecco quanto il Covid avrebbe dovuto insegnarci»
Il reparto di rianimazione Covid del policlinico San Martino di Genova

Il reparto di rianimazione Covid del policlinico San Martino di Genova - Ansa

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La pandemia da Covid-19 ha messo a dura prova valori, princìpi, regole. È come se, per certi versi, l’emergenza sanitaria avesse messo in crisi l’etica e le sue certezze. A partire da un’analisi di quanto accaduto nei momenti più difficili, Stefano Semplici svolge una riflessione su come un’esperienza emergenziale come quella che abbiamo vissuto possa evidenziare sfide che riguardano anche l’etica di tutti i giorni, in situazioni di normalità. Lo fa nel saggio Etica post-pandemica. I princìpi e le circostanze (Rubbettino, pagine 328, euro 24). Per trattare questi temi, l’autore è particolarmente titolato: professore ordinario di Etica sociale e bioetica all’Università di Roma “Tor Vergata”, dopo essere stato presidente del Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco, attualmente è membro del Comitato nazionale per la bioetica e membro corrispondente della Pontificia Accademia per la vita.

«Sars-Cov-2 – racconta Semplici – è stato fin dal primo momento un agente patogeno particolarmente “cattivo” per le conseguenze che ha prodotto, a partire dal numero dei morti, ma anche per le decisioni che ha imposto. Mi occupo di etica “applicata” e quindi, molto semplicemente, non potevo girarmi dall’altra parte. Ho iniziato scrivendo sul tema più controverso esploso nella prima fase della pandemia: i criteri per il ricovero nelle terapie intensive quando non c’è posto per tutti quelli che ne avrebbero bisogno. Sviluppando questo discorso, alla fine è nato il libro. La pandemia è stata una sfida per tutti e ha coinvolto tutti gli aspetti della vita individuale e sociale. Il libro si rivolge a coloro che si sono domandati e si domandano che cosa sia giusto fare in simili circostanze».

La pandemia è interpretata spesso come un evento che ha fatto da spartiacque in molti campi: sanitario, economico, politico, sociale. Il titolo del libro sembra dire che lo è stato anche nel campo dell’etica, ma il discorso è più complesso: «Parlare di “spartiacque” potrebbe far pensare a una distinzione radicale fra un “prima” e un “dopo” e questo atteggiamento, per quanto comprensibile data la portata dell’evento e il suo carattere inusitato per questa generazione, rischia di risultare fuorviante. Non si tratta di “scoprire” nuovi princìpi, ma di riconoscere che le circostanze contano, soprattutto quando scuotono i pilastri di stabilità e sicurezza della vita quotidiana. Il “post” del titolo sottende piuttosto, insieme a questa consapevolezza e quindi alla cautela nell’uso di termini come “sempre” e “mai” nella filosofia morale, la comprensione della pandemia come lente d’ingrandimento delle ragioni per le quali, anche in tempi normali, i princìpi così enfaticamente proclamati (l’uguaglianza, la solidarietà) rimangono lontani dalla piena realizzazione. Si parla tanto delle “lezioni” da apprendere. La più importante è che ci si prepara alle emergenze operando bene nella vita e nelle scelte politiche di tutti i giorni».

Una sezione del libro affronta il tema spinoso dei “criteri di selezione” per quanto riguarda l’accesso alle cure in un’emergenza che non consente di garantirle a tutti. Cosa può insegnare l’etica su questo punto? «Ho cercato di sottolineare due aspetti – spiega Semplici – Il primo corrisponde a un’ovvietà: il principio di uguaglianza e quindi di non discriminazione non può che valere prima di tutto rispetto alla tutela della vita della persona, di ogni persona. Il Comitato nazionale per la bioetica propose già nel suo primo parere sulla pandemia il criterio clinico come “il più adeguato punto di riferimento”. Condivido questa indicazione, che si trova peraltro in gran parte dei documenti a livello internazionale». C’è però il problema delle situazioni nelle quali la valutazione del quadro clinico può risultare sostanzialmente sovrapponibile, a maggior ragione in un contesto in cui decisioni comunque tragiche devono esser prese in tempi rapidissimi. «Si apre a questo punto lo spazio di una riflessione più complessa e anche sofferta. La priorità data a un giovane rispetto a una persona anziana implica necessariamente un giudizio di minor “valore” della vita di quest’ultima? Può diventare un sorteggio l’ultima linea di difesa del principio di uguaglianza?».

Un altro tema è come valutare i provvedimenti assunti durante la pandemia come le limitazioni alla libertà dei cittadini o l’obbligo vaccinale (diretto per certe categorie di lavoratori oppure indiretto tramite il cosiddetto “green pass”). Sul fatto se possano essere qualificati come “liberticidi” Semplici non ha dubbi: «Non c’è niente di liberticida in decisioni che sono previste dalla Costituzione e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, per citare solo due esempi. L’importante è che si tratti di provvedimenti necessari, proporzionati, efficaci e temporanei. Un’emergenza non può mai diventare il pretesto per rendere permanente la compressione di diritti fondamentali. Per quanto riguarda l’obbligo vaccinale, è stata proprio la Corte costituzionale a confermare la legittimità di alcune scelte, richiamando l’idea dei “doveri inderogabili” posti a salvaguardia dei diritti degli altri, “che costituiscono lo specchio dei diritti propri”. Resta, naturalmente, il problema della spiegazione e comunicazione di queste decisioni, una volta verificate la sicurezza e l’efficacia dei vaccini. La fiducia è una risorsa indispensabile nella lotta contro una pandemia».

Eppure negli ultimi mesi sono diventati oggetto di inchieste giudiziarie politici, funzionari, amministratori pubblici che si sono trovati, soprattutto nella prima fase dell’emergenza, a dover prendere decisioni di fronte a una situazione inedita. La bontà e la correttezza di tali decisioni si possono giudicare col senno di poi? «Nella domanda c’è già, in parte, la risposta. Cito ancora il primo documento del Comitato nazionale per la bioetica, in cui già si esplicitava la preoccupazione per contenziosi giudiziari nei confronti di professionisti della salute che si trovavano a operare in condizioni di incertezza scientifica e assenza di linee guida e buone pratiche clinico-assistenziali riconosciute come tali. Ciò vale anche, in qualche misura, per politici e amministratori. In questo campo mi sembra doveroso muoversi con estrema cautela, cercando, allo stesso tempo, di mettere a punto e aggiornare piani e regole che consentano a tutti di sapere cosa fare di fronte a un’emergenza e di cosa potranno essere chiamati a rispondere».

L’ultima parte del libro è intitolata “La morale della storia”: «Ci sono circostanze nelle quali il bene che è possibile fare non è il bene che vorremmo e che consideriamo un dovere. Possiamo e dobbiamo fare molto per ridurre i rischi, ma è illusorio immaginare di mettersi al sicuro. La nostra natura di esseri vulnerabili non lo consente. È per questo che intorno a responsabilità e solidarietà si devono costruire un’etica condivisa e una concreta azione politica».


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