il confronto alla Fondation Beyeler di Basilea tra “Le nez” di Giacometti e ”Head VI” di Bacon
Tra il cumulo di ritagli, vernici, pennelli, libri, ciarpame e rifiuti che ingombra il pavimento dello studio londinese di Francis Bacon spunta una fotografia a colori di Alberto Giacometti. È sovrapposta ad alcuni scatti di Eadweard Muybridge: un uomo nudo cammina davanti a una griglia che misura il rapporto tra lo spazio e il tempo. È una combinazione determinata dal caos asfissiante che il pittore riteneva necessario alla sua creatività. Eppure è illuminante rispetto alle sue fonti. Per Francis Bacon Giacometti era «l’uomo che mi ha influenzato più di chiunque altro». I due artisti si sono aggrappati all’immagine umana, per quanto portata all’estremo punto di consunzione – ma mai superato – in decenni in cui non solo la figurazione ma poi pittura e scultura erano date definitivamente per archiviate. Per molti esegeti Giacometti e Bacon hanno saputo come nessun altro interpretare la tragedia e l’alienazione di un’umanità modellata dai disastri della guerra. Entrambi, curiosamente, si trovano a loro agio in piccoli studi saturi e disordinati, che però allo stesso tempo rivelano la differenza di storie e di contesti: quello di Bacon è uno specchio della deriva della società industriale, nel suo tugurio parigino Giacometti sembra cercare la rusticità di una stalla alpina. Eppure i due si sono incontrati poche volte. Una sola è documentata: il 13 luglio 1965, alla Tate di Londra, mentre l’artista svizzero allestiva la sua personale. Nello scatto in bianco e nero di Graham Keen il volto di Giacometti, ormai così simile alle sue sculture, sembra molto più anziano di Bacon. Tra i due c’erano solo otto anni di distanza.
Francis Bacon e Alberto Giacometti si incontrano ora – e in modo definitivo – nelle sale della Fondation Beyeler. È la prima volta che viene realizzata una mostra interamente dedicata al confronto tra i due. Un faccia a faccia che rivela intrecci sommersi, smaschera luoghi comuni, traccia importanti divergenze. Basta l’apertura, grandiosa, con Le nez di Giacometti del 1947-49 e la Head VI di Francis Bacon del 1949, la prima delle grandi tele riprese da Velázquez. In apparenza la corrispondenza è tra due gridi, quello del “Pinocchio” giacomettiano e quello del papa annichilito nel grigio. Ma non è quello il vero terreno di confronto – d’altronde Il naso è forse l’unica bocca spalancata dell’intera opera di Giacometti. Tutto si gioca invece nella gabbia: una gabbia che delimita uno spazio nello spazio, ma che non riesce a isolarlo ermeticamente. Il naso aguzzo supera l’orlo della gabbia e fora la realtà. Innocenzo X sembra svaporare risucchiato nel nulla.
Nella celebre Boule suspendue di Giacometti il dispositivo della gabbia funziona in modo analogo: separa e unisce lo spazio del conturbante oggetto d’affezione. Dove la gabbia non è c’è, è evocata come proiezione latente delle basi che si fanno tutt’uno con le figure. «Lo spazio non esiste. Deve essere creato, ma non esiste, no» scrive Giacometti nel 1949.
«È interessante giustapporre e comparare le costruzioni spaziali di Giacometti con le strutture dipinte di Bacon» scrive nel catalogo Ulf Küster, curatore della mostra in- sieme a Catherine Grenier e Michael Peppiatt. «In una della sue interviste con David Sylvester, Bacon sottolinea che il solo scopo delle sue “cornici”, come le chiama, era di focalizzare l’attenzione sull’immagine: “Riduco la scala delle tele disegnandovi all’interno questi rettangoli che si concentrano sull’immagine. Solo per vedere meglio”». È dunque soprattutto un problema di relazione tra spazio e corpo, del tentativo di fermare il corpo nella gabbia (rapprenderlo per rappresentarlo) mentre lui la elude sempre.
Lo vediamo bene nella sala in cui si affrontano i ritratti di Isabel Rawsthorne, musa prima di Giacometti e poi di Bacon. C’è molta distanza cronologica (fine anni 30 per i lavori del primo, metà dei 60 per quelli del secondo) e anche una di visione – Bacon esalta la ferinità di Isabel, Giacometti la bellezza primordiale – ma entrambi inseguono la luce sul volto della donna, registrano la resistenza della realtà al tempo e insieme il fallimento di ogni tentativo di arginarlo.
La forma, la percezione e la sfida della sua restituzione: una visita alla mostra di Basilea spazza ogni interpretazione letteraria del lavoro dei due maestri del Novecento e li riporta all’essenza di ogni fatto artistico. La progressiva riduzione di dimensione nelle sculture di Giacometti risale al tentativo, nel 1937, di ritrarre Isabel Rawthorne «esattamente come l’avevo vista a una certa distanza nella strada. Ho voluto darle la misura che aveva a quella distanza».Giacometti e Bacon indagano uno spazio/tempo ad altissima pressione, dalla densità variabile e in continua frizione interna. La sala dedicata ai ritratti evidenzia in entrambi la tendenza all’anamorfosi (la Grande tête mince dello svizzero da una parte e dall’altra i piccoli trittici con gli studi per i ritratti di Dyer).
Ma se la concentrazione sull’uomo e un modo comune di affrontare il cuore dell’arte sono il terreno di incontro di Bacon e Giacometti, sono proprio uomo e arte a differenziarli in modo determinante. C’è innanzitutto una differenza sostanziale di riferimenti storici che si riversa per analogia in quella linguistica. Bacon si misura con la storia della pittura occidentale, da Velázquez a Rembrandt, senza dimenticare il Crocifisso di Cimabue. In Giacometti riaffiora invece la nostalgia per un primitivismo aureo, in primis dell’arte egizia.
Se nell’espressionismo di Bacon riverbera l’emozione della grande pittura, il segno nervoso di Giacometti – come una sorta di non-finito – tortura e distrugge la superficie alla ricerca impossibile della purezza di una forma assoluta. Da qui dipende il silenzio pietrificato che avvolge Giacometti rispetto all’urlo di Bacon. Se molte espressioni potrebbero essere attribuite a un artista o all’altro, forse Bacon non avrebbe sottoscritto l’urgenza di Giacometti a raggiungere il senso della «verità» di un soggetto. Si potrebbe dire che il cinico Giacometti nei pochi metri quadrati del suo studio abbia per anni continuato a cercare l’uomo.
La grande sala finale suggella proprio queste divergenze. Alle pareti troviamo alcuni grandi trittici di Bacon, tra cui In memory of George Dyer del 1971, della Fondation Beyeler, sorta di Requiem su sfondo lilla, e il violentissimo Tryptich del 1967 dell’Hirshorn Museum: gorghi di colore e pozze di carne liquida. Al centro i grandi bronzi di Giacometti, figure stanti e due Homme qui marche, appaiono persino lontani e distaccati.
Basilea, Fondation Beyeler
BACON GIACOMETTI
Fino al 2 settembre