Eaffaello, "Giustizia", affresco della Volta della Stanza della Segnatura - Musei Vaticani
Pubblichiamo la postfazione del cardinale Mauro Gambetti, vicario generale di Sua Santità per la Città del Vaticano, arciprete della Basilica di San Pietro e presidente della Fabbrica di San Pietro, al volume del gesuita Francesco Occhetta Le radici della giustizia (San Paolo, pagine 206, euro 16). Docente alla Facoltà di Scienze Sociali della Gregoriana, Occhetta ragiona sulla giustizia come metro per valutare la qualità e la vita delle democrazie ma anche la virtù che può trasformare il mondo a partire da scelte personali. Tra i punti toccati dal volume il modello della giustizia riparativa come antidoto alla vendetta; il carcere e le sue contraddizioni. Dare la possibilità a chi sbaglia di comprendere il proprio male è l’inizio per ogni incontro con il dolore delle vittime.
La giustizia è completa solo se ha come fine il bene capitale di tutte le persone, dei rei come dei giusti. San Paolo dice: «Non giudico nemmeno me stesso» «Ame però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato » (1Cor 4,3-4). Mi hanno sempre colpito queste espressioni dell’apostolo Paolo, che trovo quanto mai efficaci ed esistenzialmente vere. L’esercizio della giustizia, infatti, ancor prima che dalla assennatezza delle leggi, dipende dalla qualità dei giudizi che siamo in grado di formulare. In tal senso, una buona valutazione dipende fondamentalmente dalla conoscenza dei fatti e dalla finalità dell’azione giudiziale. Queste due condizioni sono dirimenti e, anche solo limitandoci ai dati relativi alla pratica della giustizia in Italia, pare che in diversi casi non siano soddisfatte. Come padre Occhetta saggiamente annota in questo volume, sono molti i segnali inequivocabili – dal giustizialismo che permea l’opinione pubblica globale alla qualità delle leggi, dalle lungaggini della macchina giudiziaria allo stato di salute dei sistemi carcerari – di un modello ormai in crisi, inadeguato a rispondere alla complessità del nostro tempo.
Seppur a differenti livelli, tutti viviamo l’esperienza delle ingiustizie, talora come frutto di una scarsa conoscenza dei dati o spesso come l’esito iniquo di una competizione, piuttosto che il risultato della ricerca di un bene superiore per le persone e per la società. D’altra parte, la vocazione umana alla giustizia, fiume carsico della coscienza, anche quando non trova il corretto alveo in cui essere esercitata e così non giunge al naturale approdo di un giusto giudizio, non per questo smette di emergere nella storia facendo affiorare questioni nuove. Come gestire le risorse del pianeta, traducendo in scelta la consapevolezza che la casa comune non è una proprietà a nostro consumo ma un prestito che riceviamo dalle future generazioni; come creare condizioni di sviluppo alla portata di tutti i popoli; come abbandonare un modello sociale che grava con disparità e violenze sulla metà femminile del mondo e lavorare insieme a un modello che faccia fiorire la pari dignità di tutte le persone; come garantire questa dignità in tutte le condizioni e i tempi della vita, specie quelli di sofferenza e di disagio, in cui per risollevarsi serve il sostegno di una comunità; come togliere i bambini e i giovani dall’ultimo gradino della scala sociale, dove il mondo adulto li ha relegati, e restituire loro il diritto di partecipare ai processi decisionali; come rendere efficiente e umano il sistema giudiziario, perché la distribuzione della giustizia non sia l’espressione di una vendetta di Stato ma la via pratica che permette a tutta la collettività, a cominciare dai rei, di riparare il male inferto alle vittime... Tali questioni sono quanto mai attuali; avviare un percorso per cercare di darvi risposta chiede ai soggetti coinvolti nella definizione e nell’esercizio della giustizia un’appropriazione delle proprie dinamiche conoscitive.
A tal proposito, può essere utile un breve affondo sul giudizio, che propongo sulla scorta dell’itinerario tracciato dal grande filosofo canadese Bernard Lonergan nel suo testo Insight. Per raggiungere una conoscenza sufficiente alla enunciazione di un giudizio sono necessari diversi atti completi di significato, che conducano dal livello esperienziale della registrazione dei dati al livello intellettuale della loro comprensione, per poi giungere al livello razionale in cui si giudicano le realizzazioni che emergono dai precedenti stadi. Quest’ultimo passaggio è decisivo ai fini della giustizia. Infatti, se non sono soddisfatte tutte le condizioni affinché le ipotesi formulate offrano la spiegazione dei legami tra gli avvenimenti, non è possibile raggiungere un carattere di assolutezza che garantisca la corretta interpretazione della realtà. Per spiegare questi concetti Lonergan utilizzava un esempio che riformulerei così: se rientrando a casa dopo una giornata di lavoro trovo la porta divelta e gli ambienti a soqquadro, l’unico giudizio certo che posso dare è del tipo: «È successo qualcosa». Posso poi formulare delle ipotesi – forse qualche mio coinquilino è impazzito o i ladri mi hanno fatto visita o una tromba d’aria o qualche altro evento imprevedibile ha colpito la mia abitazione – ma non posso affermare alcunché con sicurezza, almeno fino a che non avrò raccolto tutti gli elementi, non avrò fatto le supposizioni, le avrò verificate e sarò giunto a riconosce-re la corrispondenza tra la teoria e i dati di realtà. Solo allora potrò dare un giudizio corretto su cosa è accaduto. Inoltre, qualora si giunga ad una qualche assolutezza di giudizio, rimane il compito di valutare le responsabilità – oggettive e soggettive – delle persone coinvolte per stabilire il da farsi. Si può pertanto comprendere l’attualità dell’espressione paolina: io non giudico neppure me stesso. Infatti, il raggiungimento della conoscenza oggettiva è un lungo percorso che non potrà mai dirsi del tutto completato, in particolare quando concerne l’agire umano e le ragioni che lo hanno determinato. C’è in gioco la libertà dell’uomo, cifra insondabile della dignità della persona e della sua capacità di decidersi per il bene o per il male. Pertanto, se il primo obiettivo da conseguire concerne la conoscenza oggettiva dei dati e delle loro cause attraverso il dispiegarsi delle domande – cos’è? perché? è così? – che muovono i tre livelli della coscienza intenzionale del soggetto, l’orizzonte verso il quale tendere riguarda l’emergere alla coscienza della quarta domanda, decisiva per l’esercizio della responsabilità: cosa devo fare? È uno stadio determinante, morale, che si persegue tramite l’intensificazione della presenza a se stessi, in quanto in ogni impresa conoscitiva è sempre implicato il soggetto nella sua globalità. Senza una soggettività autentica non si dà conoscenza oggettiva, ma senza una conoscenza oggettiva non si dà vita autentica, ovvero segnata dall’attuazione del bene. A questo livello, in cui il politico scrive una legge, l’avvocato disegna la sua arringa e il giudice emette la sentenza, si giocano le sorti della giustizia, le sorti della vita, propria e altrui.
Da ultimo, occorre portare l’attenzione su un altro fattore determinante il dinamismo conoscitivo: a motivo del polimorfismo della coscienza, nell’uomo non vi è solo una molteplicità di atti e stati consci, ma vi è altresì un flusso della coscienza che è alle prese con molteplici schemi di esperienza, cioè con svariate modalità con cui ci si rapporta con le diverse situazioni di vita che si debbono affrontare. Gli schemi di esperienza possono riguardare il campo biologico, estetico, artistico, drammatico, intellettuale, religioso... Ora, in virtù dell’illimitatezza del domandare umano – desideriamo conoscere tutto di tutto –, il referente ultimo del dinamismo intenzionale della conoscenza non può limitarsi all’essere empirico, che in qualche modo cade sotto i sensi (cosmo, mondo umano), ma deve spingersi fino all’essere trascendente. Similmente, il desiderio di amore che soggiace alle relazioni e conduce alla domanda morale – cosa è bene fare? – non può esaurirsi nel finito (la natura, me stesso, gli altri), ma aspira all’illimitato, per poter amare tutto e tutti all’infinito e per sempre. Ad ogni livello del dinamismo conoscitivo, il domandare umano può giungere a domandare dello stesso significato del proprio domandare e così arrivare alla domanda su Dio (un interrogativo che, in realtà, è implicito ad ogni domandare dell’uomo); e ad ogni stadio relazionale il dinamismo affettivo può portare la persona a desiderare oltre il proprio stesso desiderio fino a desiderare l’Amore infinito (un desiderio che, in realtà, è implicito ad ogni desiderio dell’uomo). Per questo l’Apostolo afferma: anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato, perché soltanto in riferimento a Dio si può attendere ad un giudizio definitivo e ad un amore pieno, per compiere così ogni giustizia. In tal senso, la giustizia è completa solo se ha come fine il bene capitale di tutte le persone, dei rei come dei giusti, cioè la salvaguardia della dignità personale nelle relazioni d’amore reciproco che siamo chiamati a costruire con chiunque.