Una manifestazione per l’ambiente a Torino - Costantino Sergi/Fotogramma
Nel 2009 era tornato perplesso da Copenaghen, nel 2015 aveva trovato deludente il risultato del vertice di Parigi, alla Cop26 di Glasgow non ha neppure partecipato. «Non volevo deprimermi troppo», dice con misurata ironia Joan Martínez Alier, uno dei massimi esperti del rapporto tra economia e cambiamenti climatici. Autore di saggi fondamentali, primo fra tutti Ecologia dei poveri (edito in Italia a Jaca Book), lo studioso spagnolo è oggi a Roma per ricevere uno dei premi Balzan, che gli è stato assegnato lo scorso anno per il suo contributo nella ricerca di risposte dalle scienze sociali e umane alle sfide ambientali. Come da regolamento, una parte consistente del denaro ottenuto con il premio sarà investita in un nuovo progetto di ricerca, che nel caso di Martínez Alier riguarderà il ruolo svolto dai movimenti popolari nel contrastare le ingiustizie ambientali. «Le popolazioni indigene – spiega – costituiscono il 5% degli abitanti del pianeta, ma sono coinvolte nel 40% dei conflitti ecologici. Non si battono per tutelare un diritto o per ottenere una qualche forma di riconoscimento. La loro è una lotta per la sopravvivenza, né più meno».
Per quali motivi?
Dall’Artico all’Amazzonia, le popolazioni indigene vivono nelle zone più interessate all’estrazione di risorse. Quando manifestano, sono spinte da un’emergenza di tipo locale, ma in realtà i fenomeni che denunciano sono sempre destinati ad avere conseguenze globali, specie per quanto concerne i cambiamenti climatici.
Qualcuno, però, non è ancora persuaso di questa correlazione...
Qui non siamo nell’ambito delle opinioni, ma dei fatti: concreti e misurabili. Il dato decisivo è quello relativo alla concentrazione dell’anidride carbonica, per il quale disponiamo di una serie storica risalente alla metà del secolo scorso. La cosiddetta curva di Keeling dimostra in modo inoppugnabile che in questo arco di tempo la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera terrestre è aumentato di trecento parti per milione. Sono numeri conosciuti e verificati. Non c’è alcun dubbio che questo incremento influisca in modo determinante sull’innalzamento delle temperature. Allo stesso modo, è risaputo che c’è un solo modo per evitare il peggio.
E quale sarebbe?
Abbassare drasticamente la curva di Keeling. Il che è purtroppo impossibile, almeno alle condizioni attuali. Sulla carta, gli obiettivi di Glasgow si avvicinano al fabbisogno reale (si parla di una riduzione delle emissioni pari al 45% da qui al 2030, l’ideale sarebbe il 50%), ma per ottenere un simile risultato occorrerebbero politiche molto più lungimiranti di quelle attuali.
Quali sono i Paesi con maggiori responsabilità?
Prendersela con l’India o con il Bangladesh è fin troppo facile. In Europa, per esempio, il tasso di emissioni per persona pari a dieci tonnellate all’anno, cifra che negli Stati Uniti risulta addirittura raddoppiata. In India, al contrario, siamo al di sotto delle quattro tonnellate annue pro capite. Se tutti i Paesi del mondo fossero su questi livelli, non ci sareb- be alcun effetto serra. La vera responsabilità cade sulle grandi potenze industriali: l’Europa, gli Stati Uniti, la Cina. Senza dimenticare che la stessa India potrebbe adottare politiche di sviluppo aggressive, con ricadute enormi.
Il dissesto è prima economico che ecologico?
Il problema è la diseguaglianza tra il Nord del mondo, che condanna il Sud al ruolo di debitore economico, e il Sud, che non riesce a richiamare il Nord alle sue responsabilità in campo ambientale. In assenza di questa ammissione da parte dei Paesi industrializzati, il ragionamento si ferma su un piano di astrattezza. Detto altrimenti, non si conclude nulla.
Qual è il suo giudizio sull’enciclica Laudato si’?
Mi ha sorpreso in modo molto positivo, in particolare in alcuni paragrafi, come il 51, dichiaratamente ispirati alle proteste popolari dell’America Latina. Si tratta di una grande novità, che genera un certo ottimismo. In tutta sincerità, credo che prima o poi dovrà essere affrontata con uguale coraggio anche la questione demografica. A mio avviso, sarebbe necessario fare in modo che la popolazione mondiale si stabilizzi sui nove milioni di persone.
Che cos’altro le dà speranza?
Il movimento dei giovani, che ha in Greta Thunberg la sua rappresentante più celebre. Ma nel mondo ci sono tanti altri attivisti, che spesso operano in contesti molto difficili. Penso a Disha Ravi, la ventenne indiana arrestata nel febbraio scorso con l’accusa di cospirazione con le potenze straniere. La prova, secondo le autorità, sarebbe un cartello, del tutto innocente, che la ragazza esponeva durante una manifestazione per il clima.
Nei suoi scritti ricorre il termine di “economia entropica”: può spiegarcelo?
Se ne parla da almeno mezzo secolo, sulla scorta di un saggio di Nicholas Georgescu-Roegen, che per primo trovò il modo di applicare all’economia questo principio della fisica. Petrolio, carbone e legno hanno una caratteristica comune: possono essere bruciati una volta sola. Fino a quando si baserà su risorse non rinnovabili, l’economia non potrà mai essere veramente circolare. Da un certo punto di vista, è la rivincita della realtà fisica, concreta, sulla cattiva metafisica di una finanza interessata solo ai prezzi, ai profitti, al mercato. Se non ci affrettiamo a cambiare rotta, questa miopia ci costerà molto cara. Secondo le stime di ejatlas.org, l’atlante della giustizia ambientale al quale lavoro con la mia équipe da una decina d’anni, presto avremo a che fare con non meno di quattromila conflitti di questo genere. Davvero crediamo di potercelo permettere?