Particolare della "Trasfigurazione" di Raffaello, conservata ai Musei Vaticani - WikiCommons
A cinquecento anni dalla morte di Raffaello da Urbino pubblichiamo un saggio sull’artista e sul dipinto della Trasfigurazione di Antonio Paolucci, storico dell’arte, già direttore dei Musei Vaticani. Il saggio è contenuto nel volume “La forma di Dio”, curato da Cristina Uguccioni (Mondadori Electa).
Roma, aprile dell’anno 1520. Nella chiesa del Pantheon si officiano le esequie di Raffaello da Urbino, morto il 6 di quel mese, venerdì di passione, a trentasette anni. Deve essere stato un funerale partecipato, commosso e commovente come pochi altri nella storia di Roma.
Raffaello era celebre. Tutti, in Italia e in Europa, lo conoscevano come vero e proprio stupore del secolo, quasi un Apelle reincarnato, in ogni caso il vertice supremo della storia antica e moderna della pittura.
Aveva dipinto ad affresco l’appartamento privato di papa Giulio II: quegli ambienti che d’ora in poi tutto il mondo chiamerà le “Stanze”. Pochi mesi prima (era il dicembre dell’anno 1519, festa di santo Stefano) aveva consegnato a papa Leone X Medici gli Arazzi, dieci tessuti con le storie dei santi Pietro e Paolo destinati a ornare le pareti della cappella Sistina, che erano costati la cifra vertiginosa di settantamila ducati. Non vi è niente di più bello al mondo («nihil pulcrius») avevano pensato e scritto, stupiti e ammirati, i prelati e gli intellettuali presenti all’inaugurazione.
Così come non vi era nulla al mondo che potesse essere paragonato per venustà, originalità e splendore – la sentenza è di Baldassar Castiglione, in una nota lettera a Isabella Gonzaga – alla grande loggia dei Palazzi Apostolici, conclusa dalla “équipe” di Raffaello nel giugno di quello stesso 1519, annus mirabilis nella biografia del pittore e nella storia delle arti.
Raffaello era immensamente, meravigliosamente bravo. Lo sapevano i suoi grandi committenti: il banchiere Agostino Chigi, Giulio II della Rovere, Leone X Medici, che lo nomina nel 1515 soprintendente alle antichità di Roma, e Baldassar Castiglione, l’intellettuale più squisito e raffinato del secolo. A quest’ultimo Raffaello, per gratitudine e amicizia, dedicò il capolavoro della sua ritrattistica. È il quadro celebre che si conserva al Louvre.
Ma Raffaello piaceva anche per ragioni che potremmo definire popolari e sentimentali. Era molto bello, prima di tutto. Di una bellezza amabile e gentile, che incantava. Lo dicono le fonti, lo testimoniano i contemporanei. Possiamo capirlo dagli autoritratti che di lui si conservano: quello degli Uffizi, l’altro che sta nella Scuola di Atene, all’interno della stanza detta “della Segnatura”.
Bello e gentile e cordiale e piacevole con tutti, con il papa come con ciascuno dei suoi numerosi allievi, era Raffaello: così lo descrivono – è opportuno ripeterlo – con totale unanimità di ammirazione e di consenso, i cronisti, gli storici, i testimoni contemporanei. Raffaello amava, riamato, le donne e anche questo era un aspetto del suo temperamento che lo rendeva simpatico a tutti.
Un vero e proprio romantico leggendario è nato sugli amori di Raffaello. Non esiste certezza documentaria che il ritratto femminile collocato nella Galleria Palatina di Firenze, noto come La Velata, sia l’immagine della celebre Fornarina, la bellissima amante del pittore. Una cosa è certa, tuttavia: quello della Galleria Palatina è un ritratto d’amore, è un’immagine di donna che l’arte sublime di Raffaello accarezza con tenerezza, dedizione e con una specie di affettuosa complicità.
Torniamo all’aprile del 1520. Questo giovane uomo che dalla vita ha avuto tutto – fortuna, successo, amore, l’ammirazione dei grandi della terra e il cui futuro appare fitto di meravigliosi progetti – muore improvvisamente. Per eccessi sessuali compiuti con la sua Fornarina – scrive Giorgio Vasari – aumentando di eroica dismisura l’aspetto romantico della biografia raffaellesca. Ma l’olocausto per offerta di amore è evento, come ognuno può capire, tecnicamente impossibile e dunque altamente improbabile. È ragionevole credere invece che Raffaello sia morto di febbri malariche, endemiche e letali nella Roma di allora.
Le esequie, come si è detto, si tennero al Pantheon dove il pittore è ancora oggi sepolto in un sarcofago marmoreo al quale l’amico poeta Francesco Bembo dedicò due versi memorabili: «La Natura ha creduto di essere vinta quando lui era vivo e di morire ora che è morto».
Versi bellissimi, che esprimono in eleganza e splendore il destino di un pittore che – credevano i contemporanei e noi continuiamo a credere – è stato il più grande di tutti i tempi.
Quel giorno, al Pantheon, tutta Roma piangeva anche perché, afferma Vasari, dietro il corpo esanime di Raffaello giacente sul catafalco, era stata collocata la Trasfigurazione così che, nel vedere «il corpo morto e quello vivo», era impossibile trattenere le lacrime.
Soffermiamoci dunque sulla Trasfigurazione, oggi conservata nella Pinacoteca Vaticana: è l’opera zenitale, il capolavoro dei capolavori, il dipinto che si colloca al vertice di tutta la produzione di Raffaello concludendola ed esaltandola dal punto di vista cronologico e stilistico. Teniamo a mente quello che scrive Vasari nelle Vite, a proposito del volto di Cristo. È stato quello l’ultimo intervento autografo di Raffaello. Egli si ammala e nel giro di breve tempo muore, non appena ha finito di dipingere il volto del Trasfigurato.
Sono coincidenze, naturalmente, sarebbe sciocco caricarle di significati mistici ed esoterici, e tuttavia fa un certo effetto pensare al destino di un uomo – Raffaello Sanzio da Urbino – che nasce e muore di venerdì santo e fa in tempo a dipingere il volto del Trasfigurato prima di entrare nel tunnel della malattia e della morte.
Esaminiamo la Trasfigurazione nelle immagini d’insieme e nei dettagli. Prima, però, lasciamo parlare Vasari: la sua lingua ha una prodigiosa capacità mimetica, nella descrizione dell’opera d’arte. È come un occhio che guarda, come una mano che accarezza. Vasari è preciso, essenziale, tecnicamente impeccabile e, allo stesso tempo, interpretativo ed evocativo. Intende benissimo il messaggio teologico e catechetico che la Trasfigurazione trasmette, lo interpreta e lo significa da par suo.
La parte inferiore del dipinto – questa la sintesi del passo vasariano – è occupata dal dramma di tutti e di ognuno, dalla paura, dalla contrastata speranza. Il ragazzo posseduto dal male, come ogni vivente sotto il cielo, chiede di essere liberato dalla sventura che lo opprime e lo devasta. Chi gli sta accanto, la madre, gli altri personaggi, vogliono aiutarlo, sanno che la sua salvezza è anche la loro. Ma solo Cristo, trasfigurato sul Tabor, può salvare.
I toni scuri, drammaticamente realistici, quasi caravaggeschi, gli effetti di una concitata pittura “in nero” caratterizzano la parte inferiore della composizione, mentre in alto trionfa la luce e Vasari insiste, con parole bellissime, nel descrivere, nell’esaltare, il trionfo della luce. La luce è vocabolo di Cristo, per questo il suo volto splende come il sole meridiano.
Noi ci poniamo di fronte a questo dipinto e comprendiamo l’essenziale. Capiamo essere Raffaello come uno specchio che riflette imperturbabile, olimpico, il mondo di Dio e quello degli uomini. C’è tutto nell’opera di Raffaello e in questo dipinto sublime più che in ogni altro. Ci sono le umane passioni, le paure, i contrastanti sentimenti (il gruppo di uomini e di donne che si agitano ai piedi della trasfigurazione), c’è lo splendore infinito del mondo visibile (il tramonto romano dietro il monte Tabor), c’è la consolazione della bellezza che scalda il cuore e ci fa sentire, almeno per un momento, felici e grati di esistere. C’è la grande storia calata nei ritmi solenni e “facili” destinati ad affascinare, dopo Raffaello, generazioni di artisti: da Annibale Carracci a Guido Reni a Pietro da Cortona a Poussin a David fino (e non sembri stravagante il riferimento) a Pablo Picasso.
Nella Trasfigurazione, e in particolare nella figura e nel volto del Trasfigurato, Raffaello ha voluto dare forma all’idea del divino che si incarna nella bellezza. Il concetto è semplice ed è grande merito storico della Chiesa di Roma averlo affidato ai suoi artisti perché lo mettessero in figura. La struggente, infinita bellezza del mondo non è inganno diabolico, non è enigma e finzione, come lo stesso san Paolo aveva in qualche momento pensato: «videmus nunc per speculum in ænigmate», «adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio» (1Cor 13,12). Al contrario, la bellezza del mondo è epifania dell’Altissimo, è ombra di Dio sulla terra.
Se il Verbo si è incarnato, si è incarnato nella bellezza che ci sta intorno, che splende nei volti e nei corpi degli uomini e delle donne, che consola e riscalda le nostre vite.