Doris Salcedo, “Plegaria Muda”. L’artista colombiana è protagonista di una grande mostra alla Fondation Beyeler fino al 17 settembre - Doris Salcedo / White Cube / Mark Niedermann
Pubblichiamo l’intervento che il linguista Fedrico Faloppa terrà sabato 27 maggio a Pistoia in dialogo con l’antropologo Adriano Favole sul tema “Le parole sono germogli. Un nuovo lessico dell’ambiente”. L’incontro si tiene nell’ambito della XIV edizione dei Dialoghi di Pistoia (26-28 maggio), il festival di antropologia del contemporaneo ideato e diretto da Giulia Cogoli. Tema di questa edizione è “Umani e non umani. Noi siamo natura”. Apre il sociologo Carlo Petrini con la conferenza “Un pianeta prezioso”. La sesta edizione del Premio internazionale legato al festival va all’indiano Amitav Ghosh, che dialogherà con Paolo Di Paolo nell’incontro “La maledizione della noce moscata”. Inoltre esce oggi il nuovo libro, il 22°, della serie dei “Dialoghi di Pistoia”, Loro e noi. Sei racconti per esplorare il confine tra umano e animale (Utet, pagine 144, euro 16,00). Autori: Francesco Carofiglio, Nicola Gardini, Anna Giurickovic Dato, Caterina Soffici, Nadia Terranova ed Emanuele Trevi.
«Alle origini Dio diede agli uomini un germoglio di parola. Sta a loro cercare il resto del discorso». Sono le parole di un attivista kanak della Nuova Caledonia raccolte dall’antropologo Adriano Favole durante uno dei suoi viaggi di ricerca. E sono le parole da cui partiremo, Adriano e io, per il nostro incontro ai “Dialoghi di Pistoia”. Perché ci aiuteranno a riflettere non solo sul carattere creativo, generativo del linguaggio, ma anche sulla nostra responsabilità nel farne un buon uso, quando parliamo di temi centrali nel dibattito pubblico, come la crisi climatica ed ecologica che stiamo vivendo. E quando vogliamo provare a leggere e a raccontare le trasformazioni epocali che stiamo attraversando. Partiamo dalle parole. Già parlare di “ natura” non è così scontato come sembra. Si tratta di un termine difficilmente traducibile in molte lingue del mondo, perché polisemico, dalle molte connotazioni, culturalmente costruito – come racconta Philipp Blom nel suo splendido saggio La natura sottomessa. Ascesa e declino di un’idea – semanticamente cangiante a seconda delle epoche e delle latitudini.
Per non parlare dell’equazione, tra “naturale” e “benefico” efficace sul piano del marketing (“prodotti naturali”) ma riduttiva nel mondo reale. E che cosa intendiamo veramente per “ambiente”, per “crisi climatica”, “antropocene”, “sviluppo sostenibile”, “green economy”? Sono termini ed espressioni ormai così presenti nella nostra comunicazione da non richiederci neppure più lo sforzo di capire come li adoperiamo, per dire che cosa, per quale obiettivo. Senza renderci conto che spesso sono diventati dei cliché ad uso e “consumo” – è il caso di dirlo – degli stessi sistemi economici e di potere che stanno portando al collasso il pianeta. Perché il nodo da sciogliere è anche questo: in che modo la nostra comprensione delle questioni ambientali è mediata dal linguaggio? Quando davvero siamo criticamente consapevoli di come – e da chi – sono costruite le “storie” che abitiamo (per usare un’espressione del linguista Arran Stibbe) e che plasmano il nostro immaginario?
Sono domande, queste, a cui cerca di rispondere l’ecolinguistica, di cui Stibbe è uno dei capofila. Una disciplina giovane in Italia, ma che ha già mezzo secolo di storia, di riflessioni, di utili contraddizioni alle spalle. Ponendo l’accento prima sulla necessità di ripensare lo studio delle lingue in termini di “ecologia del linguaggio”, ovvero di come le lingue interagiscono coi loro ambienti (sociali, prima ancora che naturali) e con le altre lingue con cui coesistono. E poi, grazie a una vera e propria call to action del linguista Micheal Halliday nel 1990, sull’urgenza di studiare criticamente il “discorso” sull’ambiente, e i suoi sottesi ideologici. Ci si è interrogati e ci si interroga così sulla scomparsa degli ecosistemi linguistici, o detto altrimenti sulle lingue che muoiono al ritmo di una ogni quattordici giorni, per un insieme di cause economiche, politiche, sociali. Al punto che, secondo alcune stime, entro la fine del secolo delle oltre 7.000 lingue parlate oggi ne resteranno circa la metà. Che significherà una perdita di diversità culturale enorme, dalle sicure conseguenze, ad esempio, proprio nel modo in cui gli abitanti della Terra potranno “leggere” l’ambiente, e interagire con esso, al di fuori di un unico omologante sistema di produzione e di consumo.
Ma ci si è interrogati e ci si interroga anche di quanto i discorsi dominanti oggi sull’ambiente e le trasformazioni che stiamo vivendo nascondano tranelli che ci impediscono di costruire veramente un racconto nuovo, e di pensare a nuove soluzioni. Quanto greenwashing si mimetizza nei trionfanti slogan della green economy? Quanto può essere davvero “sostenibile” uno sviluppo che viene calcolato sempre secondo gli stessi parametri dell’economia capitalista che considera il nostro pianeta risorsa da sfruttare: da sfruttare “meglio”, forse, ma sempre a beneficio di una sola sua specie, la nostra? “Sostenibile” per chi, a quali costi? La critica del discorso potrà essere uno strumento di cambiamento vero infatti – e anche di questo ragioneremo ai “Dialoghi di Pistoia” – se sarà capace di sostenere un nuovo paradigma e un nuovo lessico per il futuro, e per le sfide non più procrastinabili che ci attendono.
Se ci permetterà cioè di bilanciare la nostra visione antropocentrica di dominio della Terra, riconoscendo anche alle altre specie diritti da inserire nei codici e nelle costituzioni, oltre che nelle liste delle buone intenzioni. Se ci aiuterà a trovare espressioni e parole capaci di produrre scatti etici: penso a “conversione ecologica”, che da Alexander Langer fino all’enciclica di Francesco Laudato si’ ha tracciato una rotta verso la convinzione che il cambiamento deve essere profondamente intimo, e socialmente radicale, per poter essere desiderabile ed efficace. Ma penso anche a koinocene, un bellissimo neologismo inventato proprio da Adriano Favole per richiamarci alla coesistenza e alla reciprocità con le altre specie di questo pianeta, più che alla loro museificazione o alla concessione di una qualche salvaguardia. Parole germogli, insomma, da piantare e far crescere insieme. Nella consapevolezza che questa non è soltanto “una” sfida, ma “la” sfida da cui dipenderanno, necessariamente, tutte le altre. Anche su questa dimensione epocale, e irreversibile, il linguaggio ci deve far riflettere. Se non ora, quando?