martedì 11 dicembre 2012
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Chi sa se lo sbarco di Pasolini ne­gli Usa e il nuovo film in uscita in Italia ( Pasolini, la verità na­scosta di Federico Bruno) permette­ranno di cogliere e riscoprire il noccio­lo duraturo del suo immenso lavoro e della sua defatigante, devastata arte? Di certo Pasolini seppe e volle essere anche un cliché, e lo è ridiventato mil­le e mille volte. Una studiosa acuta ora all’Università di Calgary, Francesca Cadel, mi portò un significativo libro su Pasolini e la moda. L’artista è stato trasformato in icona per idee spesso opposte e confuse, che non hanno però nulla a che fare con la sua radica­le e rivendicata capacità di contraddir­si, confessata davanti alle «Ceneri di Gramsci». La sua umana e intellettua­le contraddizione si nutriva in una tra­gedia interamente patita, non in una mancanza di lucidità. Quella che, ad esempio, ha spinto qualcuno ad af­fiancarlo alla Beat Generation in cam­po poetico o addirittura a usarlo come “sfondo” in prima serata Rai durante un minuetto patetico tra Celentano e Patti Smith. È un grande poeta ed è perciò un an­tropologo tragico come può esserlo un poeta, per un motivo personale, non per “cultura”. Amava nell’umano ciò che era irraggiungibile o quel che finiva per deluderlo – come racconta a proposito dei suoi primordi poetici e come accade nelle sue prove finali. Amò con «disperata vitalità» finché – come scrive lucido Gianni Scalia – con il tempo e l’età venne meno la vitalità e rimase solo la disperazione. Arbasi­no durante un festival letterario la scorsa estate affermava tranquilla­mente: sapevamo tutti che la notte mentre si era a cena lui spariva dietro ai ragazzini. La Morante gli faceva le battutine: vai presto che se no vanno a letto… Un pedofilo ? Cosa facciamo dunque, aggiungo io, smettiamo di leggerlo e insegnarlo per questo ? Op­pure censuriamo ? Una tragedia per­sonale. E per tutti. Accusò la nostra epoca di diventare il regno della «astrazione» e della «omo­logazione». Le sue parole oggi risulta­no profetiche in anni di perdita di sen­so del reale (la realtà è il mio idolo, di­ceva) in favore di astrazioni, virtualità, e soprattutto nichilismo che riduce o­gni frammento di realtà a frammento di discorso. Il suo pensiero fu tragico anche perché sapeva che alla omolo­gazione e alla astrazione che aveva vi­sto avanzare avrebbe contribuito pro­prio la parte politica e culturale a cui sentiva di appartenere. Il suo inter­vento mai pronunciato al congresso radicale, il giorno dopo la sua morte, diceva: «Io profetizzo l’epoca in cui il nuovo potere utilizzerà le vostre paro­le libertarie per creare un nuovo pote­re omologato, per creare una nuova inquisizione, per creare un nuovo conformismo e i suoi chierici saranno chierici di sinistra». Una profezia luci­dissima, azzeccata. In questa epoca di “totalitarismo” dei valori libertari, co­sa griderebbe lui che considerò la vit­toria del referendum sul divorzio una conquista borghese e non del popolo, e si schierò contro l’aborto. Sono avvi­sato dallo stesso Pasolini a non cerca­re la citazione giusta per tirarlo da qualche parte, e infatti lo lascio lì, cro­cefisso, come uno scandalo che non ci lascia tranquilli, nessuno escluso. Fu un antropologo-artista che radica­va in un senso “sacro” del vivente la sua ricerca di realismo, in arte e in po-­litica, l’amore per la gente, lo sguardo dolcissimo e duro, debitore dei mae­stri di pittura, la lingua dantesca struggente e febbrile. Pensava – con­fessa – di aver inventato la parola iero­fania , manifestarsi del sacro, accor- gendosi poi di averla trovata in Eliade, autore che le direttrici culturali della Einaudi ispirate da Calvino e De Mar­tino escludevano dai cataloghi. Pasoli­ni andrebbe letto e riletto accanto a coloro che hanno visto l’eclissi e il ma­nifestarsi del sacro come scena profonda della nostra epoca. Su tale scena profonda seppe leggere le scene di superficie come l’affermazione del modello consumista. O come l’avvento della cultura sessantottina nella impressionante durissima “Poesia della tradizione“: «oh sfortu­nata generazione / piangerai, ma di lacrime senza vita / perché forse / non saprai neanche riandare / a ciò che non avendo avuto non hai neanche perdu­to: / povera generazione calvinista co­me alle origini della borghesia / fan­ciullescamente pragmatica, pueril­mente attiva / tu hai cercato salvezza nell’organizzazione / (che non può al­tro produrre che altra organizzazione) / e hai passato i giorni della gioventù / parlando il linguaggio della democrazia bu­rocratica / non uscen­do mai della ripetizio­ne delle formule» o in quella celebre sui di­sordini di Valle Giulia. Non si trattava di di­chiarazioni di schiera­mento politico, ma di visioni. Prevedeva un mondo che si affida al­l’organizzazione (si pensi alle nostre scuo­le…) facendo crescere solo abnorme organizzazione. E chi pensa che Pasolini possa aver dato fa­stidio politicamente dovrà piegarsi all’evidenza che difficilmente in anni duri come i Settanta in Italia avrebbe ottenuto la tribuna del «Corriere della Sera» - come oggi, del resto - se fosse stato veramente scomodo all’estabil­shment del potere reale in Italia. Un fustigatore dei partiti, allora come oggi può avere quelle tribu­ne. Ma non è questa la partita che Pasolini sta­va giocando, non la principale. Va ricordato che per parecchi demo­cristiani di allora, come disse Andreotti, Pasoli­ni era solo un eccentri­co scrittore che recluta­va ragazzini (accusa per cui fu “processato” dal Pci) e che ogni tanto scriveva sul «Corsera». Come di­re: non ci curavamo di lui. E fu un er­rore, impegnati come erano a tirare su una Italia in cui avere in ogni casa un frigorifero mentre cresceva il deserto nei cuori.
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