Bambini in avvicinamento a OpernDorf Afrika, il "villaggio d'artista" voluto da Christoph Schlingensief in Burkina Faso (Lennart Laberenz)
Cosa ci fa un teatro d’opera in mezzo all’Africa? Non è un remake di Fitzcarraldo: non ci sono Violette o Valchirie a spandere la loro voce tra le acacie e le distese di terra rossa del Burkina Faso. È qualcosa di molto più complesso, paradossale e affascinante. OpernDorf Afrika è l’ultimo progetto di Christoph Schlingensief, regista (di cinema, tv e teatro) e artista tedesco scomparso a 49 anni nel 2010 per un cancro ai polmoni.
Molto noto in Germania, figura controversa, caustico e provocatore, la sua carriera mescola Nuovo Cinema Tedesco (Fassbinder su tutti) e Fluxus, cultura pop-trash e decostruzionismo, Joseph Beuys e Mtv. Il suo Padiglione tedesco aveva vinto il Leone d’Oro alla Biennale del 2011: The Church of Fear vs. the Alien within era un’installazione- performance in cui ricapitolava vita e opera mettendo a nudo il rapporto con la malattia in clima insieme cupo e ironico, tragico e denso di speranza. E “speranza” è, nelle sue parole, il termine chiave di OpernDorf Afrika, un villaggio costruito attorno a una Festspielhaus, una sala per concerti e spettacoli: «La mia concezione dell’OpernDorf – scriveva – è sempre associata alla speranza che insieme allo sforzo e al denaro di molti si crei questo organismo, che sviluppi una vita propria, attraverso di noi e soprattutto attraverso le persone che sono lì».
«L’idea in Christoph è nata nel 2009, in coincidenza con la diagnosi. La malattia ha fatto sì che egli decidesse di lasciare qualcosa ai posteri, qualcosa che andasse oltre l’opera d’arte in sé». A parlare è Aino Laberenz, giovane moglie dell’artista. Fotografa e coreografa, dalla morte di Schlingensief ha preso in carico il progetto. L’abbiamo incontrata a Bolzano, dove il Festival Transart (fino 27 settembre), tra le più interessanti vetrine della cultura contemporanea, dedica una mostra a OpernDorf Afrika. « Unsere Oper ist ein Dorf » è il motto: “La nostra opera è un villaggio”. E “opera” vale in tutti i sensi possibili. Arte, istruzione, assistenza medica costruiscono una triade di pilastri ideali. L’arte e la musica entrano direttamente nella vita educativa e sociale del villaggio, ne sono la ragione e l’anima. Un modello che funziona, visto che per un studio Unesco i risultati didattici della classi di OpernDorf sono al di sopra della media del paese e l’assenteismo ai minimi.
OpernDorf è a 30 chilometri da Ouagadougou, la capitale. Per costruirlo Schlingensief ha voluto un architetto africano, Francis Kéré. Burkinabè, nato nel 1965, è tra i protagonisti dell’architettura internazionale. «Era importante che a occuparsi dell’architettura fosse un africano – spiega Laberenz –. Col tempo poi Christoph e Kéré si sono accorti di pensare le stesse cose: si somigliavano e avevano entrambi come obiettivo rendere l’architettura strumento di partecipazione».
Kéré progetta una struttura aperta, fusa nell’ambiente. Scuola, infermeria e gli altri edifici si dispongono attorno al teatro, a forma di chiocciola: «La lumaca ha molti significati e rappresenta di fatto ciò che è successo con OpernDorf: si muove lentamente, in Africa la lumaca è simbolo di forza e col tempo diventa sempre più grande. C’è il pensiero costante di una lumaca nella struttura architettonica che fa da palco a se stessa al fine di mostrare l’arte».
L’altro punto fondamentale per Kéré e Schlingensief era il genius loci: «Hanno lavorato con la vita del posto, con cose che si trovano nei dintorni senza portare materiali e tecnologie dall’Europa, non volevano che nessuno dei due continenti influenzasse la cultura dell’altro». Kéré ha reinterpretato l’uso locale di materiali come argilla, sabbia e pietra, combinando la tradizione costruttiva del suo Paese con ecologia e sostenibilità. Le soluzioni progettuali garantiscono condizioni ambientali ideali anche nelle stagioni più calde mentre i mattoni di argilla possono essere prodotti in loco anche in carenza di elettricità e acqua.
OpernDorf è un work in progress. La prima pietra è stata posta nel febbraio 2010. Nel 2012 inizia il programma culturale, nel 2014 ospita il Festival au Désert – che nel 2013 aveva dovuto abbandonare il Mali –, nel 2015 inizia il programma di residenze di artisti internazionali. Lavori e gestione sono sovraintesi da una società fondata dal regista con sede a Berlino. Al Burkina Faso (che già supporta scuola e infermeria) a lungo termine saranno ceduti funzionamento e amministrazione, mentre nel medio termine il progetto passerà all’autonomia degli abitanti. A oggi sono stati innalzati 23 edifici: una scuola per trecento studentesse, l’infermeria (che ospita anche un reparto maternità e un ambulatorio dentistico), la mensa, il cinema, uno studio di registrazione, laboratori artistici (destinati anche a bambini e giovani della zona), le residenze per gli artisti, la biblioteca. Solo ora si sta procedendo alla costruzione del teatro, a partire dal palco «che prima non esisteva, ma l’idea principale era che si dovesse creare un clima favorevole con i bambini e in generale nel Paese, per formarli a dare vita a un clima culturale. Il palco serve solo a far esibire la loro arte».
Su un punto Schliegensif è sempre stato molto chiaro: «OpernDorf Afrika non è una organizzazione di carità né un progetto di sviluppo». Per l’artista lo scopo non era esportare la cultura europea quanto invece stimolare la creatività locale e gli scambi. Con il teatro Schliegensif vuole dare alle persone un luogo dove realizzarsi artisticamente fuori dal cono d’ombra dell’Occidente. Contro ogni forma di colonialismo culturale, dà vita non senza ironia a un Gesamtkunstwerk, una wagneriana opera d’arte totale, che molto assomiglia Bayreuth (dove nel 2004 il regista aveva curato un Parsifal), luogo da molti punti di vista simbolico della storia e della cultura tedesca. «Schlingensief voleva essere provocatorio nei confronti di Bayreuth. Voleva offrire un altro punto di vista con l’OpernDorf. Ha lavorato con queste suggestioni creando un’opera d’arte sociale e un’opera d’arte totale, sapendo bene cosa fosse. Così ha voluto proporre qualcosa di nuovo per l’Africa. Infine quest’opera rappresenta lo specchio dei nostri cliché, dei nostri modelli e pensieri sull’Africa. Crediamo tutti che l’Opernhaus segua i nostri cliché di espressione africana. Lo abbiamo sempre fatto ma adesso vorremmo che lo spettatore, guardando queste immagini, si accorga di aver pensato male per tutto questo tempo. Questo è il ruolo della Spielhaus, e vogliamo che funzioni in questo modo».