«Io la Musica son, ch’ai dolci accenti / Sò far tranquillo ogni turbato core, / Et hor di nobil ira, et hor d’Amore / Poss’infiammar le più gelate menti». Si apre così, dopo la celebre tellurica fanfara, L’Orfeo di Claudio Monteverdi, celebrazione del potere della musica unita alla parola, a cui tutti – belve, dei e spettatori – non possono sfuggire. Un capolavoro che segna come pochi altri uno spartiacque. Per celebrare i 450 della nascita del suo illustre concittadino Cremona (dove era nato il 9 maggio 1567), dopo una sorta pre-apertura con Roberta Invernizzi il 7 aprile, il 5 e il 6 maggio inaugura il Festival Monteverdi con la “favola in musica” in versione scenica al Teatro Ponchielli, affidandola a Ottavio Dantone e alla sua Accademia Bizantina. «Sebbene all’epoca ci fossero in atto altri esperimenti – dice il maestro, tra i maggiori specialisti di musica barocca – L’Orfeo di Monteverdi è la prima opera che si può denominare davvero come tale. Pur essendo un lavoro di dimensioni da camera, e nella corte dei Gonzaga a Mantova fu eseguito per la prima volta nel 1607, può essere definito opera per la sua struttura: e infatti possiamo presentarla in un teatro moderno senza difficoltà».
Chi non l’avesse mai ascoltato però potrebbe trovarsi sorpreso, rispetto all’esperienza comune di opera.
«La differenza fondamentale per chi ascolta è che questa partitura non è focalizzata su quello che si sente di solito in un’opera: arie, recitativi, accompagnamenti orchestrali. È invece basata sugli accenti della parola: è il “recitar cantando”, lo stile di quell’epoca che modellava il modo di cantare sul ritmo della parola. Nell’Orfeo la prosodia è estremamente importante. Questo non toglie che dal punto di vista musicale abbia momenti di incredibile fascino. Monteverdi è un esempio di autore non solo d’“avanguardia” ma anche decisamente superiore ai contemporanei. Pur essendo la prima opera è facilmente fruibile ancora oggi per la sua capacità di comunicare e la sua visionarietà».
Se L’Orfeo è una sorta di grande big bang dell’opera, esiste un tratto monteverdiano rintracciabile nel resto della storia del melodramma?
«Il marchio monteverdiano sta nell’unire da un punto di vista retorico musicale il senso delle parole con l’elemento musicale melodico, l’uso efficace delle armonie e degli intervalli. A quell’epoca si attingeva alla retorica classica per creare in musica figure e codici riconoscibili. Monteverdi in questo ha fatto scuola. Non dobbiamo dimenticare che partiture di questo tipo sono testimonianze di come si recitava: non sono solo un’opera musicale ma sono anche una “registrazione” di come veniva porta la parola in teatro».
È come se dettasse anche i tempi scenici, una sorta di regia interna?
«In un certo senso sì, la precisione drammaturgica è tale che basta seguirla e tutto fila perfettamente. A volte si fa l’errore di considerare la sua scrittura come libertà assoluta, e invece questa libertà nel canto è tutta perfettamente, matematicamente scritta. È nel rispetto di questo rigore che bisogna trovare la propria libertà».
Cosa significa L’Orfeo per lei?
«Quando l’ho affrontato la prima vol- ta con l’Accademia Bizantina ero nel pieno di una fase di studi intensi sulla retorica musicale e questo titolo rappresentava, come tuttora rappresenta, un banco di studio, una fonte di informazioni infinita. Qui sono le radici di tutto il secolo successivo. Ho analizzato figura per figura, come una enciclopedia degli affetti, per capire tutti i meccanismi di questo linguaggio. Questa partitura dà molte conferme e presenta altrettante sfide, per riuscire a imparare il rispetto per un linguaggio così lontano da noi ma che è necessario comprendere con estrema umiltà per porgere a chi ascolta le giuste e vere emozioni, quelle che l’autore aveva in mente. Questa è per me la vera filologia: lo studio del linguaggio, come dice la parola stessa. Spesso viene equivocata semplicisticamente con l’uso degli strumenti antichi, che rappresentano comunque un mezzo indispensabile per esprimere queste emozioni. Ma prima ancora è molto più importante lo studio scrupoloso attento e devoto del linguaggio».
L’esecutore ha il compito di ricostruire i codici retorici e linguistici: ma questi arrivano al pubblico al momento della restituzione? Oppure questa musica, che a noi sembra famigliare, in realtà ci sfugge?
«I codici semantici musicali a mio parere, e ho avuto diverse conferme sperimentali anche all’estero dove non capiscono l’italiano, vengono riconosciuti, a volte anche in modo inconsapevole, quando vengono posti nella giusta prospettiva. Credo assolutamente che questa musica possa essere ancor più comunicativa di quella settecentesca, più schematica, dove la drammaturgia è spesso fine a se stessa e in cui determinati gesti e virtuosismi musicali disconnettono testo e musica dal punto di vista emozionale. Qui invece testo e musica vanno nella stessa direzione. Il significato viene espresso costantemente anche se non c’è una vera struttura di aria. Il recitar cantando è antico ma così diretto che funziona dopo 400 anni, superando barriere linguistiche».
Rispetto a 20-30 anni fa, è cambiata la percezione e la presenza di Monteverdi nel repertorio?
«Sicuramente si fa di più e meglio. Nulla da togliere a chi come Harnoncourt si è cimentato nelle prime messe in scena filologiche. Ma negli ultimi 30 anni la consapevolezza di studiosi e interpreti è cresciuta, e dopo una prima fase pionieristica in cui ci si è concentrati sulla tecnica e sugli strumenti, ossia arco barocco, corda di budello, diapason… il discorso si è sviluppato gradualmente sul linguaggio. Un passaggio che ha giovato all’approccio estetico complessivo a queste partiture».