martedì 14 gennaio 2025
Nell’opera dello scrittore nato il 14 gennaio di cent’anni fa è centrale il recupero, romantico e nazionalista, dei valori dell’antico Giappone. Resta un alone di mistero attorno al suicidio
Yukio Mishima ritratto nel 1955 da Ken Domon

Yukio Mishima ritratto nel 1955 da Ken Domon - Alamy

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Cent’anni fa esatti, il 14 gennaio 1925, nasceva a Tokyo quello che è da molti considerato il maggiore scrittore giapponese del Novecento, Yukio Mishima (pseudonimo di Hirakoa Kimitake). La sua famiglia era di collocazione sociale medio-borghese, ma Mishima vanterà sempre l’appartenenza dei propri avi alle classe dei samurai, gli antichi guerrieri nipponici. Si trattava - nel passato medievale, ma anche oltre - di una vera e propria casta, che viveva all’insegna di alcuni ideali informati a principi filosofici e religiosi (influenzati dal buddismo): la rettitudine, il coraggio, il disprezzo del dolore fisico, il culto dell’onore, il sentimento di lealtà verso il proprio signore. Sono, in gran parte, gli stessi valori dei nostri cavalieri medievali, dai quali però i samurai si differenziavano per alcuni elementi specifici: la possibilità del suicidio, il mito della vendetta, la mancanza di galanteria verso la donna. Bisogna tenere presente questo sfondo ideale per comprendere l’opera (e anche, come vedremo, la fine) dello scrittore.

Mishima compie gli studi al Gakushuin, la scuola tradizionalmente riservata alla nobiltà. Negli anni universitari (studia Legge, per laurearsi nel 1947) si avvicina al movimento del “Nihon romanha” (o Romanticismo giapponese), il quale enfatizzava i valori culturali nipponici in senso nazionalistico, ma si interessa anche alla letteratura europea moderna, che rappresenta un elemento importante nella sua formazione: Jean Racine, Oscar Wilde, Raymond Radiguet, Fëdor Dostoevskij, François Mauriac, Thomas Mann, per fare soltanto qualche nome, sono tutti autori la cui lettura è stata per lui fondamentale.

Dopo la laurea, trova un impiego di funzionario al ministero delle Finanze, che però abbandona presto per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Intanto, nel 1941, aveva esordito in rivista, a soli sedici anni, con un racconto lungo dal titolo La foresta in fiore. Sua caratteristica peculiare - come anche delle altre opere degli anni della guerra e di quelli immediatamente successivi - è quella di una completa assenza di riferimenti al conflitto e alla sconfitta. I temi sono legati al mondo aristocratico del Giappone del passato. Solo alcuni anni più tardi l’autore avvertirà con dolore la perdita delle tradizioni del proprio Paese, e questo diventerà uno dei motivi portanti del suo lavoro creativo.

Nel 1949 esce l’opera che segna la definitiva affermazione di Mishima sulla scena letteraria: il romanzo Confessioni di una maschera (in Italia pubblicato da Feltrinelli, come tutti gli altri suoi volumi). Il titolo è volutamente ambiguo. Potrebbe significare, in un testo che si presenta come autobiografico, la piena confessione dell’io narrante. Oppure, al contrario, che nulla di quanto raccontato è vero, in quanto l’autore assume una maschera, un’identità fittizia, a fini esclusivamente letterari. La questione non è di poco conto, perché la confessione principale riguarda l’omosessualità del protagonista, argomento allora decisamente problematico e che rappresentava un’assoluta novità all’interno della letteratura del Paese del Sol Levante. La narrazione muove dai primi ricordi di infanzia, con la precoce presa di coscienza della propria diversità e dell’incapacità di amare l’altro sesso. Si fa strada l’idea di una virilità da forgiare sia sul piano fisico che su quello intellettuale, rispettivamente attraverso l’esercizio nelle arti marziali e la disciplina letteraria. Nell’opera si profila un tipo di sessualità sostanzialmente sado-masochistica, simboleggiata dall’ossessione del martirio evocata, agli occhi del narratore, dal dipinto di San Sebastiano di Guido Reni (la cui riproduzione viene da lui vista in un libro di storia dell’arte): eros e morte appaiono elementi inscindibili.

La carriera letteraria di Mishima prosegue negli anni successivi, dando vita a un corpus letterario complessivo di una dozzina di romanzi e un centinaio di racconti. Tra i libri più importanti, va ricordato Il padiglione d’oro, che, uscito nel 1956, lo consacra scrittore di fama internazionale. Il romanzo prende spunto da un fatto realmente accaduto: l’incendio appiccato nel 1950 da un novizio al celebre Padiglione d’oro di Kyoto, lo splendido tempio zen, ricoperto di foglie d’oro, risalente al XV secolo. Il protagonista dell’opera è Mizoguchi, giovane monaco prima affascinato e poi oppresso dalla visione di questo monumento. Il ragazzo, che si sente diverso dai compagni, vive un senso di alienazione e di impotenza. È proprio nel tentativo di reagire ad essi che si risolve a compiere quel gesto estremo. Ancora una volta, nell’azione folle e insieme catartica di Mizoguchi, violenza e bellezza appaiono strettamente intrecciate.

Nel 1958, al ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, Mishima sposa la figlia di un noto pittore, seguendo la prassi tradizionale dei matrimoni combinati dalle famiglie. La pubblicazione, l’anno successivo, del romanzo La casa di Kyoko, accolto negativamente dalla critica, segna l’inizio dell’involuzione dell’ispirazione creativa. Lo scrittore cerca una sorta di riscatto all’insuccesso letterario in una maggiore presenza pubblica quale uomo di azione e di spettacolo (è autore di drammi teatrali, ai quali arride un certo successo), enfatizzando sempre più la propria adesione alla cultura nipponica tradizionale, fino ad assumere apertamente posizioni di estrema destra, come testimoniano opere quali Patriottismo (1960) e Sole e acciaio (1965), in cui si assiste a un’esaltazione del mito della forza.

Nel 1965 comincia la stesura di una tetralogia, Il mare della fertilità, che avrebbe dovuto essere la summa del suo lavoro artistico. In questo mare, simbolo di vita e di eternità, sarebbero dovuti confluire i quattro fiumi della vita dell’autore: quello della narrativa, quello del teatro, quello del corpo e quello dell’azione. Di questo ciclo romanzesco, Mishima consegna all’editore - con chiaro intento simbolico - il manoscritto dell’ultimo volume la mattina del 25 novembre 1970, un’ora prima di uccidersi con un suicidio rituale (seppuku), un atto che destò grande scalpore in Giappone e in tutto il mondo.

Mishima compiva un’azione che apparve già allora, oltre che tragica, del tutto anacronistica, e sulle cui ragioni ci si è a lungo interrogati. Il suicidio avvenne in un contesto pubblico (in diretta televisiva) e fu caricato dallo stesso Mishima di un significato politico. Lo scrittore infatti, davanti al quartier generale delle forze di autodifesa, aveva incitato i militari alla ribellione, per poi uccidersi insieme a un fedele compagno del “Tate no kai” (Società degli scudi), una sorta di milizia privata, composta per lo più da studenti universitari, da lui stesso fondata alcuni anni prima che predicava la necessità di educare a una vita spartana i giovani disorientati dall’occidentalismo dilagante. Mishima intendeva così risvegliare l’antico orgoglio dei guerrieri in nome dei valori tradizionali nipponici spazzati via dalla modernizzazione.

A determinare la decisione di quella drammatica uscita di scena contribuirono diversi fattori e varie furono le interpretazioni: un certo fanatismo nazionalista, la ricerca estetica della “bella morte”, un doppio suicidio per amore o semplicemente un gesto di pazzia. Uscendo dal suo studio per andare incontro alla morte, aveva lasciato un biglietto: «La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre». La morte e il desiderio di immortalità avevano da sempre ossessionato Mishima. La ricerca di una risposta a questi pressanti interrogativi esistenziali avrebbe imboccato alla fine una strada senza via d’uscita: l’adesione al fascino del nulla e la conseguente distruzione di sé.

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