Straniero uguale clandestino. E/o criminale. Perché no: terrorista, potenziale o reale, dopo lo choc dell’11 settembre 2001. Immigrazione uguale invasione. E problema di ordine pubblico. E aggressione alla nostra cultura, civiltà, tradizioni. Italia uguale Paese sotto assedio. Che ha il diritto-dovere di difendersi dall’assalto delle nuove orde della globalizzazione. È questa la storia che ci hanno raccontato negli ultimi vent’anni. In prima fila la stampa italiana, a partire da quella periodica che, con alcune lodevoli eccezioni, ha troppe volte offerto un’immagine allarmata e allarmistica dell’immigrazione. Come? Trasformandola in «massa umana» alla deriva, in puro evento senza cause razionali né prospettive ragionevoli; sradicandola dal contesto internazionale, semplificandola fino alla banalità di uno schema calcistico del tipo «Italia contro Resto del Mondo». Grazie alla sapiente selezione delle immagini fotografiche, alla loro efficace combinazione con titoli, testi, tabelle, che ci hanno mostrato l’immigrazione – la massa, la folla anonima e minacciosa – occultando gli immigrati – le persone, le identità, le storie: i volti. Tutt’al più riducendoli agli stereotipi etnici, nazionali, confessionali. Cioè a non-persone. Negare il volto dell’altro è il modo migliore per dare un volto alle proprie paure. È l’amara lezione di questi anni, come emerge da uno studio di Paola Corti, docente di storia contemporanea all’Università di Torino, dal titolo Emigranti e immigrati nelle rappresentazioni di fotografi e fotogiornalisti (Editoriale Umbra, pp. 144, 10 euro), pubblicato nei «Quaderni» del Museo regionale dell’emigrazione «Pietro Conti» di Gualdo Tadino (Perugia).
UN SECOLO DI SGUARDI DIVERSIC’era un altro modo, più vicino al vero, per raccontare questa storia? Sì, c’era. C’è. Bastava guardare a come la parte migliore del fotogiornalismo italiano – gente come Uliano Lucas, come Tano D’Amico – ha saputo dare un volto ai nostri connazionali mettendosi al loro fianco, dopo la Seconda guerra mondiale e fino ai primi anni ’70, lungo i «cammini della speranza» e nei Paesi del Centro e Nord Europa che furono la loro meta principale. Bastava guardare a come i grandi della fotografia e del fotogiornalismo americano, generazione di giganti come Lewis W. Hine e Jacob Riis, hanno saputo dare un volto alla massa italiana che approdò negli Stati Uniti fra XIX e XX secolo. Bastava guardare – e qui l’analisi di Paola Corti lascia l’amaro in bocca – a tutte quelle fotografie scattate fin dagli anni ’90 da
freelance italiani, ma anche da autori legati alle agenzie o alle testate giornalistiche, che hanno saputo cogliere l’altro volto dell’immigrazione in Italia, ma sono rimaste negli archivi o in fondo ai cassetti, quasi mai entrando in pagina. Fotografie capaci di suscitare pietà e indignazione, quando denunciano le drammatiche condizioni di viaggio e di approdo degli stranieri nel nostro Paese, la precarietà delle condizioni di vita e di lavoro – fino allo sfruttamento – che spesso contraddistinguono le fasi iniziali del percorso migratorio, diventando strutturali in chi non riesce a uscire dalla clandestinità; ma anche fotografie capaci di raccontare la «normalità» che non fa notizia eppure riguarda i più, le traiettorie della stabilizzazione e dell’integrazione – il lavoro, la casa, la scuola, i ricongiungimenti familiari, il culto, la cultura, la festa, le nuove generazioni... Fotografie in cui la massa torna a lasciare posto alla persona, alla storia, al volto. Immagini – stigmatizza Paola Corti – che hanno fatto fatica a trovare ospitalità nella grande stampa periodica, arrivando al pubblico principalmente grazie a canali minori come le pubblicazioni, le mostre o altre iniziative del terzo settore, dell’associazionismo religioso e laico, i circuiti dei festival di fotografia, i rari cataloghi pubblicati sull’argomento in Italia.
ELLIS ISLAND E MILANO CENTRALELa prima parte del volume mette a confronto la rappresentazione dell’esodo italiano postbellico in Europa e verso il nostro «triangolo industriale» da parte dei fotogiornalisti italiani, con quella della grande emigrazione fine ’800-inizi ’900 oltre Atlantico da parte dei loro colleghi americani. Cambiano protagonisti e scenari, ovviamente: navi e porti lasciano il posto treni e stazioni; Ellis Island a New York o l’Hotel des Inmigrantes a Buenos Aires fanno spazio a Milano Centrale o allo storico binario 11 di Monaco di Baviera; i brulicanti
tenements e i laboratori di Little Italy alle baracche e alle miniere di Marcinelle o alle catene di montaggio e ai condomini della Wolkswagen a Wolfsburg. Vi sono però anche analogie e affinità, non solo nei temi – il viaggio, l’arrivo, i controlli di frontiera, il lavoro, la vita familiare eccetera – ma anche nella carica di denuncia e nella profondità dell’osservazione sociologica. La studiosa sottolinea l’influenza del cinema, quello neorealista
in primis, sul fotogiornalismo italiano postguerra grazie a titoli come
Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi,
Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti o
Pane e cioccolata (1973) di Franco Brusati. Lo stesso dialogo tra fotografia e cinema si era già messo in moto da decenni negli Usa – si pensi a quel caposaldo del muto che fu
The Inmigrant (1917) di Charlie Chaplin. Nello sguardo dei fotogiornalisti italiani degli anni ’50-70, come in quello dei colleghi americani mezzo secolo prima, prende forma il rapporto a volte conflittuale fra la modernità dei contesti d’arrivo e la «tradizione» che si manifesta nei modelli culturali e nei comportamenti sociali dei nuovi arrivati. Ma con una differenza, sottolinea la studiosa: mentre il repertorio delle immagini scattate negli Usa, nonostante la persistenza di alcuni stereotipi etnici, mostra grande fiducia nella capacità d’integrazione della società americana e nel pieno approdo alla modernità degli immigrati, il fotogiornalismo italiano degli anni ’50-70 enfatizza piuttosto il permanere della distanza sociale e culturale rispetto al contesto d’arrivo, assieme al giudizio negativo sulle politiche italiane postbelliche che avevano fatto degli emigranti una merce di scambio per un Paese senza risorse naturali e tutto da ricostruire.
DALL’ALBANIA CON STUPORELa seconda parte del volume, che focalizza invece la rappresentazione dell’immigrazione in Italia nell’ultimo ventennio, si apre con un’autentica icona del nostro tempo: la fotografia scattata da Giorgio Lotti nel 1991 al largo del porto di Brindisi. In primo piano, una coppia di albanesi sbarcati da una nave carica di immigrati – sullo sfondo – e accolta su una «pilotina» affittata da alcuni giornalisti perché la donna, incinta, era stata colta dalle doglie. Sono i giorni dello stupore, della pietà, della solidarietà. Non dureranno molto. Volti e persone svaniranno. E resterà lo sfondo, la massa umana, la sindrome dell’invasione – navi e gommoni stracarichi, centri d’accoglienza strapieni, code bibliche davanti alle questure... È la strategia della spersonalizzazione, dell’anonimato, della serializzazione del migrante, come emerge da copertine e impaginati della stampa periodica passati in rassegna dalla studiosa. Non mancano – e Paola Corti le addita – eccezioni al conformismo ed esperienze in controtendenza. La lezione? Negare il volto dell’altro sarà pure il modo migliore per dare un volto alle proprie paure; ma solo chi sa riconoscere e riconoscersi nel volto dell’altro, può dire d’aver guardato davvero in faccia la realtà.