Illustrazione tratta dalla copertina del libro di Antonella Napoli “Il vestito azzurro” edito da People
Anticipiamo ampi stralci dell’introduzione a "Il vestito azzurro. Un regime dimenticato e il coraggio di una giornalista" (edito da People, pagine 160, euro 16) che Antonella Napoli, inviata nel Sudan
del dittatore Omar Hassan al-Bashir, ha scritto sulla sua esperienza segnata da momenti drammatici. L’autrice seguì tra l’altro le vicende della condanna a morte nel 2014 di una donna incinta all’ottavo mese, Meriam Ishag Ibrahim, per apostasia. La condanna grazie alla protesta
internazionale fu sospesa, ma la Sharia ha continuato a insanguinare il paese.
Per salvare Meriam Avvenire lanciò una grande campagna
#meriamdevevivere che raccolse 81mila adesioni via mail, oltre 8mila sottoscrizioni
Quando il 15 maggio del 2014 in Sudan un giudice pronunciava la sentenza che condannava a morte Meriam Ishag Ibrahim per apostasia, in una Khartoum più ostile che mai verso chiunque si opponesse alle violazioni dei diritti umani e alle repressioni delle libertà, o chi come me le raccontava, non pensavo che sarei diventata un bersaglio per il regime guidato da Omar Hassan al-Bashir.
Il Presidente sudanese, al potere da trent’anni, aveva pendente su di sé un mandato di arresto della Corte penale internazionale per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Chiunque ne scrivesse, o parlasse del governo in chiave critica, diventava un “nemico del Sudan”.
Cinque anni dopo, mentre raccontavo un’altra storia, quella che avrebbe cambiato per sempre il Paese – e la mia vita –, venivo privata della libertà per diverse ore. Avevo rischiato di subire lo stesso trattamento riservato alla protagonista della vicenda che nel 2014 avevo contribuito a far conoscere al mondo.
Ero in Sudan per illuminare una periferia del mondo ignorata dai media mainstream, dove le violenze e i soprusi contro innocenti, giornalisti, attivisti e oppositori erano quotidiane. Un viaggio che mi aveva portato dalla capitale sudanese fino alle aree rurali più remote, per raccogliere immagini e testimonianze delle nuove repressioni nei confronti delle minoranze e del dramma umanitario della popolazione nella regione occidentale del Darfur, che da anni chiedeva equità nella ripartizione delle risorse e la condivisione del potere decisionale, centralizzato a Khartoum.
Il volto di Meriam, la sua fede, la sua determinazione a non subire l’ingiustizia, come accadeva da sempre alle donne sudanesi, mi avevano spinta a fare di più, nel rispetto dei valori universali nei quali avevo sempre creduto: libertà, uguaglianza, democrazia.
Non partecipare attivamente a quella battaglia di giustizia avrebbe significato venir meno a quei principi. Non riuscivo a credere all’iniquità di un processo assurdo, che si stava svolgendo in un sobborgo di Khartoum: un giudice di periferia aveva condannato a morte una cristiana all’ottavo mese di gravidanza e madre di un bambino di un anno e mezzo.
Integralista e osservante in maniera ossessiva della Sharia, il magistrato islamico non aveva mostrato alcuna pietà per Meriam e i suoi piccoli: Martin, costretto a rimanere in prigione con lei, e la bimba che portava in grembo e che sarebbe nata in carcere.
La colpa di Meriam? Non aver rinnegato la propria fede.
Il video: Papa Francesco incontra Meriam e la sua famiglia
La sentenza era attesa da giorni. Il giudizio già scritto. Le associazioni per i diritti umani pronte a iniziare un lungo percorso per richiamare l’attenzione sul caso. Sapevo, sentivo, che quel verdetto avrebbe sconvolto il mondo, che quella giovane, coraggiosa donna sarebbe divenuta un simbolo per la cristianità e per i diritti violati in ogni angolo del pianeta.
Meriam, pur essendo figlia di un musulmano e per questo considerata di religione islamica dalla legge sudanese, era cresciuta nel rito cristiano ortodosso della madre. Nonostante le rappresentanze diplomatiche di Stati Uniti, Gran Bretagna e Olanda avessero chiesto al governo di impegnarsi a far rispettare il diritto alla libertà di culto, come era sancito dal 2005 dalla Costituzione ad interim del Sudan, e di liberare Ibrahim, non ci furono alcun arretramento o presa di distanza dall’operato del giudice che aveva emesso la sentenza.
A sollecitare l’intervento dell’ambasciata Usa era stato il marito di Meriam, Daniel Wani, sud sudanese di nascita con cittadinanza statunitense. Daniel era solo un ragazzo quando, da esule, era arrivato negli Stati Uniti insieme alla sua famiglia, ed era cresciuto da americano, maturando un grande rispetto per la legge e le istituzioni.
Anche per questo, rispetto ai legali che seguivano il caso di sua moglie, era più ottimista: sperava che si potesse chiarire quello che riteneva fosse solo uno sfortunato equivoco. Purtroppo si era dovuto ricredere, scontrandosi con la realtà e l’intolleranza delle autorità giudiziarie locali. Un’intransigenza dura, confermata anche dalla risposta indifferente del presidente del Parlamento del Sudan. Il 15 maggio del 2014 il giudice Abbas Mohammed Al Khalifa pronunciava il suo giudizio dopo aver tentato, in un colloquio di quaranta minuti, di convincere Meriam a ripudiare la sua fede.
Fu per lei il momento più difficile da quando le forze di polizia sudanesi, il 17 febbraio di quell’anno, erano arrivate a casa sua per portarla in carcere insieme a suo figlio. Al-Khalifa, prima di condannarla, le aveva concesso tre giorni per abiurare la fede cristiana, ma lei aveva deciso di non convertirsi all’Islam. Un credo che non era mai stato il suo. Nonostante le accuse fossero basate sulla denuncia di colui che per Meriam era un perfetto sconosciuto, un uomo che affermava di essere suo fratello ma che lei non aveva mai incontrato, il magistrato aveva creduto alla sua versione e non al racconto dell’imputata, che non sapeva di essere figlia di un musulmano: il padre aveva abbandonato sua madre e lei quando aveva solo sei anni.
Ma la Sharia non ammette ignoranza. Ad alimentare quel grande astio nei suoi confronti, si aggiungeva il matrimonio con Daniel. Per l’accusa, Meriam non solo si era convertita ad altra fede, ma essendosi sposata con un non musulmano aveva commesso adulterio, in quanto avrebbe potuto unirsi in matrimonio solo con un uomo della stessa religione. Le loro nozze, per le autorità sudanesi, non erano valide.
Per questo, quando Meriam era stata portata in carcere, Daniel non aveva potuto tenere con sé Martin: secondo la legge sudanese, non ne aveva diritto. Settantadue ore dopo il colloquio con il giudice, senza il “pentimento” richiesto, era arrivata la disumana sentenza: quella pena di morte, poi cancellata in secondo grado grazie alla mobilitazione globale a sostegno della liberazione della donna, che oggi non potrebbe più essere emessa.