domenica 23 giugno 2024
La frase attribuita a de Coubertin rende una falsa idea dei valori dei Greci. Divisi in mille città stato in competizione tra loro, l’atletica acquistava un valore fortemente politico
L'Atleta vincitore di Lisippo (noto anche come Atleta di Fano), ora al Getty Museum e al centro di una battaglia legale con l'Italia

L'Atleta vincitore di Lisippo (noto anche come Atleta di Fano), ora al Getty Museum e al centro di una battaglia legale con l'Italia - WikiCommons

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Anticipiamo un brano del testo inedito di Eva Cantarella sul mondo antico, contenuto nel volume a più voci L’Officina dello Sport. Le squadre, la ricerca, la tecnologia, la passione e i valori sociali (Marsilio Arte, pagine 320, euro 49,00). Il volume è curato dalla Fondazione Pirelli e contiene scritti su diversi aspetti dello sport.

Per capire cosa significasse lo sport per i Greci antichi bisogna, per prima cosa, dimenticare il luogo comune secondo il quale quando si impegnavano in attività atletiche la cosa per loro più importante non sarebbe stata la vittoria: sarebbe stato partecipare. Una infelicissima frase, diventata purtroppo celebre, che esprime (o esprimerebbe, in quanto a lui attribuita) le opinioni in materia di Charles Pierre de Frédy, barone di Coubertin, noto come Pierre de Coubertin.

Nato a Parigi nel 1863 da una famiglia aristocratica, cattolicissima e molto tradizionale, de Coubertin era profondamente convinto della necessità che le attività sportive avessero nella formazione di un buon cittadino la stessa importanza delle materie tradizionalmente insegnate, come la filosofia o la storia. Ed essendo, oltre che dello sport, un grande appassionato della cultura classica, aveva unito i suoi due maggiori interessi proponendo e sostenendo l’idea di far rinascere gli antichi Giochi Olimpici, descrivendo le cui caratteristiche, un giorno, pronunziò (o avrebbe pronunziato) la frase di cui sopra. Con conseguenze purtroppo gravemente negative sulla conoscenza della cultura greca, della quale era tanto innamorato quanto profondamente all’oscuro. Cresciuto in un momento nel quale la mitizzazione della Grecia aveva raggiunto uno dei suoi momenti più alti, l’aveva infatti idealizzata al punto di falsificarne totalmente gli ideali, come dimostrano in modo inequivocabile e plateale le sue opinioni sul rapporto tra i Greci e lo sport.

L’etica dei Greci

Come i poemi omerici mostrano senza possibilità di equivoci, l’etica greca era sin dalle origini fondamentalmente ed estremamente agonistica. Nel mondo che essi descrivono, le qualità che facevano di un uomo un eroe erano quelle che gli consentivano non solo di emergere, ma di dominare sugli altri in tutti i campi, sconfiggendo i nemici in guerra e mostrando la propria superiorità nei rapporti sociali. Non a caso, nell’Iliade, l’insegnamento dato dal padre Peleo ad Achille che si accingeva a partire per Troia era stato quello di «essere sempre il migliore e superiore agli altri» (XI, 784). Non a caso la stessa raccomandazione era stata fatta dal re dei Lici Ippolito al figlio Glauco (VI, 208). Era questo il lascito che di generazione in generazione i padri trasmettevano ai figli, e a dimostrare sino a che punto questi lo introiettassero stanno alcuni famosi versi di Pindaro: il ritorno in patria di chi ha subito l’onta della sconfitta, egli scrive, avveniva «per obliqui sentieri nascosti».

La sconfitta era il segno dell’inadeguatezza, la vittoria quello del valore: di questo clima era parte la cultura dello sport. E a testimoniare l’importanza che essa continuò ad avere nei secoli sta il prestigio del ruolo assunto in tutta la Grecia dai giochi atletici che si svolgevano a intervalli regolari nelle diverse città, per capire la cui fondamentale rilevanza politica si impone una breve digressione storica.

Anche se spesso si tende a dimenticarlo, la Grecia antica non era e non è mai stata una nazione (se non con Alessandro, a prezzo della libertà). Essa era composta da un insieme di città (poleis, termine che non a caso traduciamo con città-Stato), il cui numero, secondo i calcoli di Mogens Herman Hansen, il maggiore studioso della materia, nel V secolo a.C. si aggirava attorno a millecinquecento. E nessuna di queste città aveva una posizione istituzionalizzata di supremazia sulle altre: ciascuna era autonoma e indipendente, era dotata delle sue leggi, delle sue istituzioni e del suo esercito.

Data la natura competitiva dei Greci, come sorprendersi che esse fossero, le une con le altre, in continuo, perenne stato di conflitto e di guerra? Cos’altro è la storia greca, del resto – una volta sconfitto il nemico persiano – se non quella delle competizioni più o meno durature e più o meno sanguinose tra città?

I giochi atletici

Come collocare in questo quadro la pratica dei giochi atletici tra città che caratterizzarono la vita dei Greci sin dalle origini? In primo luogo, quasi superfluo a dirsi, come manifestazione della loro etica competitiva. Ma limitarsi a questa ragione non renderebbe conto della loro rilevanza politica.

I giochi infatti erano l’occasione nella quale sulla naturale rissosità cittadina prevaleva – anche se solo temporaneamente – la consapevolezza di appartenere a un sistema comune di valori e dell’importanza di questo legame. Questa era, infatti, la fondamentale funzione politica dei giochi. Per dare un’idea della loro rilevanza e sintetizzarne le dinamiche sociali e politiche, è necessario partire dalla storia di quelli che, dopo essere diventati tali in terra greca, sono diventati i giochi più celebri del mondo (sia antico sia moderno). Come ben sappiamo, i Giochi Olimpici erano nati secondo la tradizione nel 776 a.C. nella regione dell’Elide, al cui interno Olimpia era da tempo immemorabile considerata un luogo sacro, sede di Zeus. Ed erano ovviamente importanti per la – peraltro scarsa – popolazione locale: Olimpia, infatti, era un borgo che non raggiungeva il numero sufficiente di abitanti per assumere i caratteri di una polis, e che tale non divenne se non in un’età ben più tarda di quella nella quale i giochi cominciarono a svolgersi.

Premesso tutto ciò, eccoci a un argomento che ha posto non poche difficoltà agli storici: cosa accadde, quali furono le ragioni che consentirono a quei giochi, periferici e campagnoli com’erano, di conquistare l’importanza che a un certo punto della loro storia assunsero e quindi saldamente mantennero? È una vera e propria sfida per gli studiosi, tra le cui possibili soluzioni ci limiteremo a ricordare una di quelle che ha trovato più sostenitori e che potrebbe, forse, avere un maggior grado di vicinanza alla realtà.

Come è stato giustamente osservato, i giochi, in tutta la Grecia, erano organizzati dalle autorità locali: di conseguenza, quanto più deboli esse erano, tanto meno rischiavano di acquistare prestigio e potere politico a scapito delle altre sedi. E Olimpia era debolissima. Possibile che, come è stato prospettato, sia questa la ragione per cui, non destando da quel punto di vista alcuna preoccupazione, riuscì a raggiungere lentamente e acquistare il prestigio che, nel tempo, le consentì di occupare saldamente una posizione di primo piano? Niente più di un’ipotesi, lo abbiamo detto, che potrebbe però aver effettivamente contribuito all’assunzione da parte delle Olimpiadi di un ruolo notevole all’interno dei luoghi e nei momenti nei quali, sulla metà del VI secolo a.C., si svolgeva annualmente il cosiddetto períodos: letteralmente, il circuito nel corso del quale avevano luogo i giochi più importanti, di cui erano parte a Delfi quelli Pitici in onore di Apollo, in Argolide a Nemea quelli Nemei, a Corinto quelli Istmici e a Olimpia quelli che dalla località prendevano il nome.

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