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Ralph Fiennes e Juliette Binoche in "The Return" di Uberto Pasolini - Maila Iacovelli - Fabio Zayed
Mentre l’isola di Favignana, in Sicilia, si prepara ad accogliere il visionario Christopher Nolan e le riprese di alcune scene della sua Odissea, kolossal hollywoodiano interpretato da Matt Damon, Tom Holland, Anne Hathaway, Zendaya, Lupita Nyong’o, Robert Pattinson e Charlize Theron e in uscita il 17 luglio 2026, nelle nostre sale approda oggi – con 01 Distribution Itaca – The Return, il film che Uberto Pasolini ha dedicato al ritorno di Ulisse a Itaca, dove sua moglie Penelope lo attende insieme al figlio Telemaco. Presentato all’ultima Festa del Cinema di Roma, il film è stato definito dal regista stesso «un’Odissea dello spirito, senza viaggi, senza ciclopi e sirene, senza dei. Solo un uomo sfinito che torna a casa dopo anni di lontananza, una moglie tenace che lotta per mantenere la fede in un suo inatteso ritorno e il viaggio di un figlio verso l’età adulta, diviso tra l’amore per sua madre e il peso del mito di suo padre. Una famiglia separata dal tempo e dalla guerra, riunita dall’amore, dal senso di colpa e dalla violenza».
Pasolini porta dunque Omero sul grande schermo contaminando la fedeltà al testo con una riscrittura contemporanea e riunendo sul set Ralph Fiennes e Juliette Binoche a 29 anni da Il paziente inglese. Ma il cast comprende anche Claudio Santamaria, Charlie Plummer e Angela Molina. E se Ralph Fiennes interpreta un eroe spezzato, esausto, dal corpo martoriato, che soffre di stress post-traumatico come tanti soldati sopravvissuti a guerre più moderne, portando sulle spalle il senso di colpa per aver tradito la moglie, il figlio e il suo popolo, Juliette Binoche è una Penelope piena di rabbia, che chiede conto a Ulisse della sua lunga assenza, che si interroga sul perché gli uomini trovino la strada della guerra, capace di annientare ogni forma di umanità, ma non quella di casa.
«Chissà perché – si chiede il regista – un film sull’Odissea non è mai stato fatto prima e da qualcuno più bravo di me. Sono 70 anni che al cinema non si vede il racconto di Ulisse, Penelope, Telemaco, i Proci. Kirk Douglas e Silvana Mangano sono stati gli ultimi nel 1954 in un film divertente, un po’ pop corn, diretto da Mario Camerini. Sono 30 anni che penso a questo film, ci ho messo più io a realizzarlo che Ulisse a vincere la guerra e a tornare a casa. Quella per l’Odissea è una passione infantile, ma più si invecchia e più leggendola ci si riconosce nell’emotività, nella problematica, nella psicologia delle persone raccontate. I miti hanno una vita millenaria perché nei loro personaggi ci riconosciamo, e io mi riconosco non nell’eroe, ma nel marito e nel padre fallito, nei difficili ritorni a casa: il mio lavoro mi ha portato spesso molto lontano dalla mia famiglia. A una lettura approfondita, il mondo che ci circonda si riflette in quello di Omero e non capisco perché altri autori cinematografici non si siano cimentai in questa sfida. Io l’ho fatto per arroganza, per la fortuna di poter lavorare con questo cast e perché, come mi disse una volta Dante Ferretti, che anni fa mi dava dei consigli su come affrontare questa avventura, gli unici passi che vale veramente la pena fare sono quelli più lunghi della gamba». E a proposito della fedeltà al testo classico, il regista chiarisce: «Tutto quello che c’è di più bello è di Omero. L’ordine dei fatti è stato a volte cambiato, ci sono situazioni che si svolgono in momenti diversi, abbiamo condensato e mescolato eventi passati e presenti. Anche i dialoghi sono quelli di Omero, ma ci sono battute che appartengono a testi più recenti. Ho letto ad esempio molte interviste ai reduci del Vietnam, dove si parla della loro difficoltà di gestire la violenza vista e perpetrata in guerra, e quella di tornare in famiglia. Anche le mogli dei veterani parlano dei problemi ad accettare questi mariti distrutti dall’esperienza bellica. Non c’è l’Omero scolastico, ma quello che parla di cosa vuol dire essere umani, figli, padri, servitori, madri, mogli. Ci siamo focalizzati più sui viaggi interiori e meno sulle avventure». E aggiunge: «Non era mia intenzione insegnare niente a nessuno o essere di ispirazione. Quando faccio un film il primo pubblico sono io. Mi auguro che il mio lavoro possa essere condiviso con gli altri, ma la prima persona da soddisfare sono io. Sarei un cineasta di maggiore successo se pensassi prima al pubblico e poi a me, ma non riesco proprio a farlo».
Fiennes invece interviene sulle ricerche necessarie per interpretare il ruolo di Ulisse: «La preparazione storica ha la sua importanza, ma la fonte migliore resta la tua immaginazione. Leggi la sceneggiatura e pensi al senso di azioni e parole. Cosa significa tornare a casa? Ed essere fisicamente esausti? Non ho fatto grandi ricerche, ma ho indagato la sceneggiatura con Uberto per capire le motivazioni del personaggio. Prepararsi significa essere pronti a tutto quello che accade sul set davanti alla macchina da presa». E Binoche aggiunge: «Anche io non ho fatto grandi ricerche perché abbiamo a che fare con archetipi presenti in tutti noi. Il senso di solitudine e abbandono appartengono a questa donna prigioniera che vuole resistere e proteggere il proprio figlio e a me è bastato pensare alla mia vita, alle situazioni a cui ho fatto fronte come come donna e come madre».