L'ex atleta Matteo Villan
«Il momento più bello? Quando il nostro primo paziente, che avevamo intubato giorni prima, si è risvegliato e ci ha chiesto se era già in paradiso. In quel momento lui non vedeva, perché la terapia antivirale può dare anche una cecità temporanea, come effetto collaterale. Coi miei colleghi ci siamo avvicinati e gli abbiamo detto che no, era ancora qui, con noi, ed era in buone mani. Ora è a casa, completamente guarito». Di sfide, anche difficili, s’è nutrito per una vita intera Matteo Villani. Perché questo 37enne di San Secondo Parmense, prima di diventare anestesista-rianimatore nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Maggiore di Piacenza, è stato atleta professionista. Di più. Un fior di atleta, due volte campione italiano sui 3mila siepi, e azzurro dell’atletica leggera alle Olimpiadi di Pechino2008, dove venne eliminato in semifinale. Appese le scarpette al chiodo, Matteo - laureatosi a pieni voti in medicina appena due mesi dopo i Giochi cinesi - si è concentrato sulla sua nuova carriera, e da più di un mese è in prima linea nella lotta contro il coronavirus.
«I primi giorni è stato come essere investiti da uno tsunami – ci racconta al telefono in uno dei rari momenti di pausa dal lavoro in corsia – : d’improvviso continuavano ad arrivare pazienti, tutti con gli stessi sintomi, febbre e insufficienza respiratoria, e tutti dovevano essere intubati, avevano bisogno di essere aiutati a respirare. Così dalla mattina alla sera. Un incubo e uno sfinimento. Ora da qualche giorno, la situazione si è stabilizzata, ma guai ad abbassare la guardia, perché questa è una malattia che può colpire tutti, e al momento non ne conosciamo la cura». Un risultato - quello della stabilizzazione del numero degli accessi al reparto - ottenuto a prezzo di sacrifici indicibili da parte di medici e infermieri: «È da un mese che non vedo mia moglie i miei tre figli – spiega Villani – : ho capito subito che la faccenda era molto seria, e allora prima mi sono auto isolato in casa, poi li ho mandati a vivere dai nostri parenti. Quando stacco dal lavoro, dopo turni anche di 14 ore, torno a Fidenza, mi lavo, mangio e dormo. E poi la mattina dopo si ricomincia».
Eppure, se possibile, c’è anche chi lavora in condizioni ancor più difficili: «Non tutti tra i miei colleghi, magari, hanno avuto la stessa possibilità, e allora c’è chi vive isolato in una stanza di casa, i parenti gli lasciano il cibo fuori dalla porta, ma magari ti resta sempre la paura di infettare qualcuno anche solo toccando una maniglia». Corsie parallele, quelle dell’atletica e di un ospedale, come se Villani abbia vissuto due vite distinte e parallele. Ma come è logico e d’obbligo, le parabole s’intrecciano, si intersecano, si mescolano. «In cosa mi sta aiutando l’essere stato un atleta di alto livello? A non mollare mai, a voler averla vinta fino all’ultimo metro all’ultimo centimetro. Lo stesso spirito agonistico che mi animava mentre saltavo le siepi, mi spinge oggi oltre i miei limiti contro questa malattia. E poi il lavoro di squadra: anche se praticavo uno sport individuale, le mie prestazioni erano frutto dell’impegno mio e di chi collaborava con me, dal massaggiatore, al tecnico, ai dirigenti; e oggi è lo stesso, coi miei colleghi e le nostre equipe e ogni singolo impiegato in ospedale».
Una voce risuona in sottofondo: è tempo di tornare in corsia. C’è ancora il tempo però per ricordare Pechino, le Olimpiadi, il traguardo sognato da ogni atleta: «Entrare nello stadio olimpico, il “Nido d’Uccello”, prima della gara, con 90mila persone sugli spalti e vedere ardere il braciere olimpico è un’immagine cui ancora oggi ripenso, nei momenti più difficili, e mi dà coraggio». Tokyo fra un anno ospiterà l’Olimpiade della rinascita? «Ne sono convinto. Sarà una nuova ripartenza. Perché? Perché noi uniti siamo più forti del virus, dobbiamo essere più forti'. La voce di sottofondo si fa più forte e pressante. È tempo di tornare in reparto, per vincere la corsa più importante. Tutti insieme.