Ariballo gianiforme attico a figure rosse (VI secolo a.C.). Parigi, Louvre - WikiCommons
Anticipiamo uno stralcio dell’intervento di di Bruno Chaouat, professore di Letteratura francese all’Università del Minnesota, sul nuovo numero 2/2021 di “Vita e Pensiero”, il bimestrale culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Tra gli altri temi della rivista: Chiesa e pandemia, con riflessioni di Nathalie Becquart, suora francese nel febbraio 2021 nominata da papa Francesco sottosegretaria del Sinodo dei vescovi, e Valentino Bulgarelli, sottosegretario della Cei; una ricerca sulle diversità religiose a scuola; “Divinizzazione cristiana e divinizzazione post-umanista”, intervento di Andrea Vaccaro sulla “gnosi postmoderna”.
Due “incidenti” accaduti di recente nell’università americana mi spingono a riflettere sulla riprovazione che ha per oggetto la “questione del classico”. Il primo riguarda un attacco contro la musica classica da parte dei teorici dell’analisi musicale. Questo incidente, divenuto famoso come “affare Timothy Jackson”, ormai è ampiamente documentato e continua ad agitare l’ambito degli studi musicali in Nordamerica e non solo. La musica classica, da Bach a Brahms, cioè la musica tonale che ha elaborato un ordine rigoroso e gerarchie armoniche, è forse razzista precisamente per il fatto di avere una classificazione sonora?
Per il teorico della musica Philip Ewell, la musica classica è un’arte classista, non solo perché ha privilegiato gli uomini bianchi (fatto che è piuttosto normale dato che è nata in Europa dopo il Rinascimento), ma perché la sua stessa organizzazione, la sua struttura estetica e matematica, si fonda sulla discriminazione sonora. Ora, se alla lotta fra classi si è sostituita la lotta fra razze, la discriminazione di classe della musica classica è ormai una discriminazione di razze. Si definisce, dunque, razzista la musica classica. Il secondo incidente è ancor più sconcertante perché riguarda uno dei migliori docenti di letteratura classica della sua generazione.
Dan-el Padilla Peralta, dell’Università di Princeton, denuncia la sua stessa disciplina di essere la pietra angolare del razzismo europeo, e cioè del razzismo tout court. Di origini dominicane e arrivato all’apice di una carriera improbabile nel sancta sanctorum dell’università occidentale, Padilla Peralta, in stile Bourdieu, ha rimesso in discussione il sistema stesso che lo ha posto in una posizione di rilievo. Ma ancor più che l’istituzione universitaria, egli ha accusato la disciplina delle lettere classiche di aver portato fino a noi l’ideologia razzista. C’è un che di tragico nel destino di Padilla Peralta: è come se, liberatosi dal giogo della miseria e della discriminazione razziale, si fosse reso conto che la sua professione promuoveva una disciplina che aveva inventato la sottomissione delle “razze inferiori”, cioè la sua stessa sottomissione.
Così ha intrapreso la missione di decolonizzare le lettere classiche, detto in altro modo: doveva ora affrancarsi dall’alienazione nei confronti della propria educazione e della propria realizzazione intellettuale. Dopo essere “uscito da sé” tramite lo studio del-l’alterità europea, la sua lotta, che è anche quella di molti altri universi- tari appartenenti a minoranze etniche, consiste ora nel ritornare a se stesso. Coloro che denunciano la propria disciplina lo fanno partendo dal modo in cui questa è stata sfruttata e reimmaginata dagli ideologi del razzismo. Così, poiché i nazisti amavano Schubert e Beethoven, Schubert e Beethoven sono considerati con sospetto.
La stessa cosa avviene nel caso di Padilla Peralta: poiché il dittatore Rafael Trujillo rivendicava l’eredità “bianca” dei Greci e dei Romani, ecco che Greci e Romani vengono sospettati di complicità con i tiranni razzisti dell’America latina e dei Caraibi. [...] Coloro che tentano di continuare a trasmettere la tradizione classica – cioè, secondo la mia definizione, la tradizione stessa –, sono ormai visti con sospetto. Oggi, il neoliberalismo si è alleato con la critica alla ragione occidentale per distruggere il pensiero critico e la cultura classica. Assistiamo così all’alleanza improbabile e mostruosa tra la critica del sistema e il sistema stesso contro la “cosa” classica. Infine, non sorprende che questo odio del classico e la grande liquidazione delle discipline umanistiche si manifestino nell’era della “modernità liquida” (secondo la defi nizione di Zygmunt Bauman). All’apogeo del capitalismo, Charles Baudelaire diceva che la forma di una città cambia più velocemente che il cuore di un mortale. Noi oggi potremmo affermare che il cuore di un mortale cambia con la stessa velocità con cui cambia forma una città. È necessario agire presto, altrimenti il classico rischierà di non resistere all’erosione dell’aspirazione umana a durare.
( Traduzione di Simona Plessi)