Uno scatto di Francesco Allegretti esposto nei giorni scorsi nella rassegna “All Black” dedicata alla Nuova Zelanda a Milano presso la Key Gallery / - @ Francesco Allegretti/All Black
Il geografo Franco Farinelli domenica interverrà a Vicenza nella giornata finale del Festival Biblico, dedicato a Genesi 1-11, sull tema della mutazione climatica.
All’inizio c’era il clima, e il clima era tutto e comprendeva ogni cosa. All’inizio qui vuol dire fin dove la memoria umana, o almeno quella occidentale, consente di ricordare. A farla breve, anche per Aristotele, e poi fino all’inizio dell’epoca moderna, il clima non era qualcosa di sussistente come direbbero i filosofi, qualcosa al confine tra la materialità e l’immaterialità, che si può pensare, ma che comunque non si può toccare come invece oggi esso è: il complesso delle condizioni meteorologiche (precipitazioni, venti, temperatura, pressione atmosferica) che caratterizzano una determinata regione nel corso di un periodo temporale piuttosto lungo, statisticamente di solito un trentennio. Il clima invece era la regione nel suo complesso, l’estensione terrestre nella sua materialità, la cosa stessa e non le caratteristiche ambientali della cosa, era qualcosa di esistente, direbbero sempre i filosofi, perché si poteva immediatamente toccare con mano. Era la Terra stessa nelle sue primordiali, archetipiche suddivisioni naturali, che dipendono dall’inclinazione della superficie terrestre e del cielo dall’equatore ai poli, dalla quale a sua volta dipende la diversa distribuzione del calore solare. Il che non tiene però conto del terzo e ingombrante incluso, l’umanità. La cui sopravvivenza nel corso dei millenni si è fondata, pena la scomparsa, sulla sostituzione della tavola alla sfera, della mappa al globo, della carta geografica al mondo. In una parola: del modello alla realtà. Senza il richiamo a tale archetipico rimpiazzo non è possibile comprendere la ragione della formidabile capriola che negli ultimi secoli ha messo capo all’idea di clima che oggi è la nostra.
A scuola li abbiamo studiati come i filosofi presocratici. Giorgio Colli li chiamava i sapienti greci. Ma per Strabone, all’inizio dell’era volgare, gli autori dei primi modelli occidentali del mondo erano semplicemente geografi. I Babilonesi avevano inventato, duemila anni prima della nostra era volgare, il mantello del cielo, la cui esistenza e visibilità dipendevano dalla linea dell’orizzonte. Ferecide, uno di questi sapienti che Aristotele considera un vero mago, nel VI secolo prima di Cristo inventa invece il mantello della Terra. Lo sappiamo in virtù di un frammento di un suo testo scampato alla totale distruzione, che narra delle prime nozze sacre, le prime nozze al mondo. A quel tempo, narra la storia, gli unici esseri viventi erano tre: il Cielo, la Terra e l’Oceano che è il sacerdote del rito.
La Terra allora non si chiamava ancora Gé, che in latino diventa Gaia, quella che ride, splende, brilla e significa la chiarezza, la visibilità, insomma l’orizzontalità. La Terra allora si chiamava ancora Ctón, termine che implica la realtà sotterranea, oscura, invisibile, verticale. È infatti velata che essa si presenta alla cerimonia, e quando la sposa si toglie il velo lo sposo le mette sulle spalle il mantello che egli stesso ha ricamato, intessendo su di esso la forma dei fiumi, dei laghi, delle montagne, dei castelli. È su questo mantello che l’abisso terrestre, trasformato in una distesa orizzontale, acquista per la prima volta la propria esistenza geografica, e la Terra diviene ciò che ancora per noi essa é: non l’effetto del rasoio di Occam, ma il rasoio stesso di Ferecide, per cui la Terra diviene l’esile linea che divide il sottostante ambito ctonico da quello aereo superiore, ognuno distinto se non autonomo rispetto all’altro. Esattamente come, migliaia di anni dopo, Ferdinand de Saussure avrà bisogno di un sottile tratto per poter distinguere, fondando la semiologia, il superiore significante dal sottostante significato.
Senza tale taglio non saremmo qui a parlare di clima, di un ambito che coincide con le condizioni materiali della nostra esistenza atmosferica ma, allo stesso tempo, concepito e agito per millenni come indipendente rispetto ai due livelli sottoposti. Come, a proposito di Gaia e del nuovo regime climatico si esprimeva qualche anno fa Bruno Latour, di fronte al pericolo di essere cacciati dalla Terra che reagisce ai nostri tentativi di dominarla: «Abbiamo frainteso l’ingiunzione: non dovevamo portare il Cielo sulla Terra, ma in primis prenderci cura, grazie al Cielo, della Terra». Latour non lo dice, ma portare il Cielo sulla Terra significa esattamente, dall’opera esoterica di Ermete Trismegisto fino a oggi, ridurre il mondo a una mappa, che è appunto la linea sottile che permette a Ferecide, Occam e Saussure (tra tutti gli altri) di procedere alle loro distinzioni.
Dunque per non arrivare fin qui non avremmo dovuto fare mappe, non avremmo dovuto sostituire al mondo la carta geografica, e trasferire su quello le operazioni compiute in prima battuta su questa. In tal caso il mondo sarebbe molto diverso, al punto che qualsiasi esperimento di pensiero volto a immaginarlo corre adesso il rischio di perdersi nella numerosità e nella complessità degli anelli di retroazione connessi al tentativo. Eppure è tutto fuorché un esercizio privo di senso. Perché ne va probabilmente della nostra stessa sopravvivenza.