Il percussionista indiano Trilok Gurtu
«Perché no?». Ride, Trilok Gurtu, quando gli si chiede cosa l’abbia spinto a intitolare il suo ventesimo album da leader, in uscita il 7 febbraio, God is a drummer; ovvero “Dio è un batterista”. Trilok poi spiega. «Ritengo che la musica sia sempre connessa con la spiritualità, che beninteso non è la religione. Ma dai miei genitori ho imparato a legarla coi concetti di bellezza, pace e Dio: comunque lo si voglia chiamare. In fondo c’è Qualcosa più grande di noi che ci permette di creare musica, e senz’altro non è un fenomeno fisico. Inoltre senza ciò che fa muovere le cose non avremmo vita, e senza ritmo non avremmo musica. Non potevo dunque non pensare a Dio come a un batterista… Ma non c’è provocazione nel titolo del Cd; semmai gratitudine nei confronti di Dio». Nato a Mumbay in India nel ’51 e residente in Germania dal ’76, Gurtu è uno dei più importanti batteristipercussionisti di quella frangia delle sette note che spazia senza pregiudizi tra jazz e world music, funk e Africa, India della tradizione ed Europa colta. Negli anni ha lavorato con giganti quali Joe Zawinul e John McLaughlin, in progetti con vista sul pop di italiani quali Pino Daniele e Ivano Fossati, nonché col Dj nostrano Robert Miles. In God is a drummer l’artista innesta uno sfaccettato, coloratissimo e spesso travolgente percussionismo (cui aggiunge maestose programmazioni di basso) su un viaggio fra più linguaggi che omaggia i suoi riferimenti musicali e sua madre, alterna elegie e one-man show ritmici, fa virare al world la fusion e - in Try this, coi giovani orchestrali della Junge Norddeutsche Philharmonie – osa partire da colori afro-indiosudamericani per azzardare orizzonti classici. Da Gershwin asiatico del Duemila.
Il suo cd è ricco di dediche partendo da quella al suo padre spirituale Maharaj: cosa le ha insegnato?
A guardarmi dentro. A centrarmi non sulla salute e tantomeno sul denaro, bensì sul senso. Che poi è ciò che mi permette di suonare libero parlando a tutti.
Sua mamma, una cantante, invece cosa le ha lasciato?
A far musica non pensando alla fama o a farne un “lavoro”, ma per amore. Per sentirmi bene, eclissare i momenti difficili verso una pace interiore e la spiritualità. Penso che sia grazie a questo, che ho potuto connettermi a tanti artisti lontani da me.
Ha dedicato brani del Cd anche al grande tastierista Joe Zawinul, al percussionista Nana Vasconcelos, al mito della batteria Tony Williams. Che le hanno dato?
Esperienze. Impariamo da tutti: anche quando una collaborazione è negativa s’impara. È impossibile essere artisti senza questa consapevolezza. Con Nana c’era un rapporto speciale, e l’ultima cosa che mi ha detto è stata di continuare a far musica evitando il business. Williams mi vide sul palco, rideva e non sapevo cosa pensare: ma alla fine del concerto mi disse che ero unico… Mi ha incoraggiato; lui e Jack DeJohnette mi hanno spronato ad andare avanti, a suonare a modo mio e a iniziare a comporre cose mie.
Che lei compone con la batteria: dunque è possibile?
Beh, nella mia cultura è normale trasformare ritmi in sequenze di note. A volte succede il contrario, altre che dal ritmo vengano armonie o linee di basso. Ma senza il ritmo la musica sarebbe morta.
Quanto conta invece la memoria, viste così tante dediche, per il Trilok Gurtu persona?
Conta: ma non deve essere troppa. Se la memoria di un computer è piena non funziona più; se la nostra è zeppa non possiamo creare. Tengo nella memoria quanto mi fa bene, dunque insegnamenti, affetti, mentori. Ma anche cose quotidiane come il cibo italiano! Ho un appartamento a Bossolasco nel Cuneese e lì tra porcini, tartufi, la carne della Granda… Penso di avere più amici allevatori e vignaioli, che artisti.
Da noi ha lavorato con Pino Daniele: che ricordo ha?
Fantastico. Oltre che come compositore, era unico il suo modo di interpretare la lingua napoletana. Ho suonato anche in Canada con lui, eppure non era il mio mondo fare ogni giorno tutto uguale: Pino era un personaggio, un cuore grande. Veniva a vedermi a Parigi e dalla platea mi gridava: ridendo.
A lei piace il ritmo della nostra contemporaneità?
Dipende da come lo si fa. Come nel cibo conta anche come cucini. Nella musica bisogna essere sé stessi e non imitare; nella vita occorre accettare quanto accade e sforzarsi di cambiare il mondo partendo da noi. Sono un indiano in Germania e lo vedo, che c’è il problema immigrati, che c’è negatività: ma a che serve gridare ai politici di rinunciare alle loro strategie e ai loro interessi? Iniziamo noi, a fare qualcosa. Io in musica provo a portare positività, magari contagerò altri a mutare orizzonti.
Ma oggi che cosa significa fare «musica del mondo»?
Oh, sono tutte etichette per vendere: io uso tanti linguaggi per unire le persone, non m’interessa affatto come definiscono la mia musica; anzi. La musica è musica, non certo jazz, world, free jazz…
Dove trova Trilok Gurtu la Samadhan che evoca nel brano, ovvero l’indiano appagamento con sé stesso?
Nella famiglia, che non ha un compito facile dato che io sono schizzinoso e manicheo; e nel far musica in libertà senza mai pensare al business. Mi arrabbio invece quando vedo tanti giovani che imparano su Youtube in realtà in modo ignorante, senza capire. Ecco, a mio avviso il virus del 2020 è l’ignoranza.
Ora Gurtu va verso una direzione più “classica”?
Nel 2006 con Arkeology avevo già provato un po’ e ora vorrei mi riconoscessero questo nuovo percorso; però anche se ascolto tanta orchestra e amo le big band, non vado verso Stravinsky o Bach e ho scelto dei giovani apposta. Per sviluppare il mio sound grazie alle sonorità possibili con un’orchestra.
Questo sound lo porterà anche in Italia?
Ora ho date a marzo in Svizzera e a maggio a Londra; stiamo per definire Firenze, ma prima arriverò da voi nel GFS Trio con Paolo Fresu e Omar Sosa. Poi aspetto l’invito in Friuli, nei loro festival mi chiamano sempre: per fortuna pure ad assaggiare vini e piatti… Mai solo business, ricordi! Così si fa arte davvero.