Alcide De Gasperi - Wiki Commons
Pubblichiamo passaggi dell’intervento dal titolo “Profezia degasperiana. Il deserto della democrazia e la rinascita della politica” che Ivan Maffeis, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, ha tenuto a Pieve Tesino nell’ambito della Lectio Degasperiana organizzata dalla Fondazione Trentina Alcide De Gasperi.
Alcide De Gasperi è stato un uomo politico dotato di capacità profetiche. Nessun altro leader del suo tempo ha avuto una vita così intensa e imprevedibile. La sua grandezza non si misura solo con quello che ha fatto come statista, ma soprattutto per la testimonianza che ci ha offerto. Come gli antichi profeti, ha indicato una strada e un metodo politico che vanno oltre la sua stessa esistenza. Ha accettato di mettersi alla guida del suo popolo, senza garanzie e senza esitazioni. Prima è stata la volta del popolo trentino, orfano e disperso durante la Prima guerra mondiale, poi quella del popolo italiano che imparò a conoscere. Quando assunse il compito di guidare l’Italia fuori dal deserto in cui la democrazia si era smarrita, De Gasperi era più che sessantenne.
Ha condiviso i valori di fondo della Resistenza e ha partecipato con convinzione alla transizione democratica dal Regno alla Repubblica; ha salvato la continuità dello Stato; ha contribuito a dare al Paese una Costituzione tra le più solide; ha ricostruito le basi della collocazione dell’Italia nella comunità dei Paesi occidentali; ha allargato l’orizzonte politico europeo. Con la sobrietà del suo modo di praticare la fede, ha anticipato gli insegnamenti del Concilio Vaticano II; ha offerto un esempio di laicità e insieme di fedeltà alla Chiesa; ha impegnato i credenti per la democrazia rappresentativa, così da dare senso politico alla tradizione riformatrice del cattolicesimo sociale. Soprattutto, con la sua azione tenace ha rimesso al centro la politica, mostrando che spettava proprio a essa rimediare alla terribile crisi in cui aveva gettato l’umanità. […]
Come tutti i profeti, non era un moderato. Senza mai tirarsi indietro nelle battaglie elettorali, ha contribuito a riscattare la politica dai suoi aspetti più materiali e duri. Voleva fornirle un’anima, fare in modo che avesse sentimenti e principi. Governò per otto anni di fila. Possedeva un innato stile di comando, ma non amava l’idolatria del capo. Sentiva più il bisogno di guidare le masse che il bisogno di imporre. Rifuggiva i paramenti regali. Lo disturbava l’idea che potesse apparire desideroso di decidere da solo. Cercò sempre alleanze. Anche in questo ricalcava le orme dei profeti, che avevano mantenuto sempre un atteggiamento molto critico rispetto alla prospettiva di Israele di darsi un re, come avveniva tra gli altri popoli. […] Sullo sfondo biblico, una figura come quella di Mosè può aiutare ad accostare e interpretare quella di De Gasperi. I tre passaggi decisivi dell’esistenza dell’uomo dell’Esodo è possibile ritrovarli riflessi, per analogia, in quelli vissuti nel Novecento dallo statista trentino. Un primo periodo è quello in cui Mosè cresce alla corte del faraone: lui, un sopravvissuto, uno scampato alle acque, ha accesso alla cultura più fiorente del tempo, riceve un’educazione di qualità, impara la proverbiale sapienza degli Egiziani. È la prima parte della vita degasperiana, che lo vede passare dalle sue valli a Vienna, dalla terra di una minoranza italiana al Parlamento dell’impero.
Un secondo periodo racconta come Mosè non si sia chiuso nella sua condizione privilegiata: la mette in campo con generosa disponibilità, animato da un profondo sentimento di solidarietà, che lo porta a lottare contro la sopraffazione e l’ingiustizia, fino a compromettersi. In realtà, Mosè viene respinto dai suoi, conosce la delusione e l’amarezza dello scacco; fugge nel deserto, dove diventa uno straniero, un pastore dedito al gregge. Vive anni di solitudine e di silenzio, di necessità, forse anche di paura. De Gasperi conosce la doppiezza di Mussolini, la cui falsità retorica aveva combattuto da giornalista come lui a Trento già nel 1908. Assiste alla vigliaccheria di molti. Vede partire in esilio su ordine della Santa Sede il suo mentore, don Luigi Sturzo; è abbandonato dalla maggior parte dei deputati cattolici che si allineano dietro il Regime; cerca di fuggire, è arrestato, infine si rifugia nella Biblioteca vaticana con il poco che la Curia gli offre. Anni di attesa, in cui si fa mendicante di una parola, di un gesto di attenzione e di amicizia, di un lavoro, di fiducia, di qualcuno che ancora creda in lui.
Nella vita di Mosè, come in quella di De Gasperi, c’è una terza stagione. Nell’esperienza di un roveto ardente Mosè è visitato da Dio, che gli insegna a «togliersi i sandali», a non rinnegare la propria storia, ma a ripensarla fino a sentire che è «terra santa». La Legge promulgata dal Sinai era funzionale a questo disegno: uno strumento che aiutava a passare dalla condizione servile a quella della libertà per il servizio. Questo cammino avviene tra mille difficoltà, segnate dall’ingratitudine e dall’infedeltà del popolo, che, davanti agli stenti del viaggio, si rifugia in un rimpianto ricorrente per la precedente condizione, quando in Egitto era «attorno alla pentola delle cipolle». […]
Mosè – la guida, il legislatore, il profeta con cui «il Signore parlava faccia a faccia come uno parla con il proprio amico», non entrerà nella Terra Promessa, la scruterà soltanto da lontano, prima di morire in solitudine, lontano da quel popolo per il quale si era speso senza misura. Lo stesso per De Gasperi. Muore a 73 anni il 19 agosto del 1954, nella sua e nostra amata terra trentina. Sapeva che – per quanto ci si affanni e si lotti – la fine ci incontra sempre impreparati e a metà di ogni progetto. Tracciò la strada della terra promessa di un’Italia pacifica e prospera, ma – appunto, come Mosè – la poté soltanto intravvedere. Uno dei maggiori teologi contemporanei, Dietrich Bonhoeffer, richiuso dai nazisti nel carcere di Berlino, aspettando la condanna, spedisce ad un amico una poesia dedicata a La morte di Mosè. Si rispecchia negli occhi di questo profeta morente e scrive: «Mentre sprofondo, Dio, nella tua eternità, vedo il mio popolo camminare nella libertà». Vale anche per De Gasperi.