giovedì 30 maggio 2024
Più e prima di chiunque altro, il socialista riformista aveva capito il pericolo di un regime. Più di chiunque aveva denunciato. Lo fece apertamente alla Camera alle 15 del 30 maggio 1924
Giacomo Matteotti nel 1924, poco prima della morte

Giacomo Matteotti nel 1924, poco prima della morte - archivio

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Alle 15 del 30 maggio di un secolo fa Giacomo Matteotti si alza nell’aula di Montecitorio e, fra mille interruzioni e minacce, pronuncia il discorso che segna la propria condanna a morte. Contesta la validità delle elezioni tenutesi in aprile, denunciando dettagliatamente i soprusi che le avevano accompagnate. A Roberto Farinacci che lo minaccia: «Va a finire che faremo sul serio quel che non abbiamo fatto»; Matteotti replica: «Fareste il vostro mestiere». E così sarà, il 10 giugno. Più e prima di chiunque altro, il socialista riformista Matteotti aveva capito, fin dal 1919, il pericolo fascista. Più di chiunque aveva denunciato quella “controrivoluzione preventiva” di una rivoluzione tanto minacciata ma mai avvenuta. Perché, nel suo Polesine – dove i socialisti avevano avuto un successo elettorale straordinario – Matteotti aveva conosciuto la natura intimamente violenta e vigliacca del fascismo: le cacce all’uomo, le sedi delle leghe incendiate; la distruzione delle case; i camion di camicie nere che nel cuore della notte arrivavano nell’aia delle cascine; intimavano al capolega di uscire; lo caricavano sul camion e lo massacravano di botte. Lui stesso, nel marzo 1921, mentre si trovava a Castelguglielmo, paesino polesano, aveva subito un sequestro lampo: aggredito in strada, bastonato, sputacchiato, spinto su un camion di squadristi con una rivoltella puntata, infine scaricato in aperta campagna.

Era stato Matteotti, a voler stampare, all’inizio del ’24, il libretto (Un anno di dominazione fascista) in cui, con «numeri, fatti e documenti» si dimostrava che il fascismo, che pretendeva d’essere andato al potere per ripristinare l’autorità statale, in realtà aveva «sostituito l’arbitrio alla Legge» e «asservito lo Stato alla fazione». Il libro avrebbe venduto, clandestinamente, 20.000 copie in Italia e sarebbe stato diffuso in tutta Europa. È per questa capacità di denunciare, argomentando, che i fascisti odiano Matteotti. Per questo lo uccidono. La sua vita e la sua sorte bastano, da sole, a sfatare quell’idea – che oggi riaffiora – di un fascismo che, prima delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler, era stato tutto sommato “moderato”, responsabile soltanto di qualche bicchiere di olio di ricino e di alcune “villeggiature” forzate, su qualche bella isola, inflitte agli oppositori. Smentendo le ingenerose parole di Gramsci che lo aveva definito un “pellegrino del nulla”, testimone di una lotta “senza risultato e senza vie d’uscita”, il tempo ha riconosciuto grandezza e attualità al pensiero e all’opera di Matteotti, come con grande acume ci ricorda Federico Fornaro nella sua recente biografia sull’uomo di Fratta Polesine (Giacomo Matteotti. L’Italia migliore, Bollati Boringhieri, pagine 240, euro 19,00).

Nel 1914 Matteotti fu pacifista “integrale e internazionalista”, subendo volgari accuse di “antiitalianità”. Come Turati, nelle viscere della guerra Matteotti aveva sentito il formarsi del fascismo. Ma, mentre nazionalisti ed interventisti democratici si incontravano e riempivano le piazze e le colonne dei giornali, al contrario cattolici e socialisti, rimanendo divisi, non riuscirono ad intaccare lo spirito del tempo che addirittura bollava come tradimento l’eventuale acquisizione di Trento e Trieste per via diplomatica. La stessa incapacità a far fronte comune sarà, nel dopoguerra, la principale causa dell’avvento del fascismo. Rileggendo oggi l’elenco delle scissioni socialiste, delle espulsioni e delle occasioni perdute di collaborazione con i popolari, gli antifascisti ci appaiono come dei ciechi che si aggirano a tentoni in mezzo ad iceberg che stanno per schiacciarli. Per un quarto di secolo, dirà Turati, i socialisti disputavano su quale fosse la via migliore. Ma, intanto, «non si marciava; marciavano gli altri; ci raggiunsero e ci furono sopra».

Se pensiamo alle ampie e profonde riforme realizzate da Giolitti a inizio ’900, al socialismo democratico impersonato da Matteotti, teso ad un concreto miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici e al programma di vaste riforme sociali lanciato nel giugno 1919 dal neonato Partito Popolare di don Sturzo, sorge spontanea la domanda: com’è possibile che non si siano incontrati? Come furono possibili tanti veti incrociati mentre la marea nera montava? Come poté il Psi, nel gennaio del ’22, respingere l’appello del sindacato di sinistra (la Cgdl) ad appoggiare un governo di “difesa democratica”? E due anni dopo, sul fronte comunista, come fu possibile che, diciotto giorni prima dell’omicidio Matteotti, “l’Unità” insistesse sulla sciagurata teoria secondo cui «social-democrazia e reazione fascista non sono altro che i due aspetti, soltanto esteriormente diversi, della dominazione della classe borghese»? A parte un incomprensibile veto personale su Giolitti (errore in cui cadde anche don Sturzo), Matteotti fu l’unico a non farsi trascinare in questo gorgo di cecità. Non lo alimentò e, proprio per questo, ne fu, dopo don Minzoni, la prima illustre vittima. Quando, nel 1929, l’Internazionale comunista chiese ai comunisti italiani di applicare al socialismo democratico l’etichetta di “socialfascismo”, Ruggiero Grieco ripose: «Gli operai italiani sanno che Matteotti è stato assassinato da Mussolini». Ma ormai era tardi. Ci vorranno la Resistenza e poi la Costituente per emendare questo tragico errore. Non dimentichiamolo.

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