Cioffi con il cavallo ViolettoE, finalmente, spunta l’alba. «Da quelle parti comincia ad albeggiare intorno alle 3,30. La squadra del sergente maggiore Comolli è inviata nuovamente in esplorazione alla quota, prima di portarvi il Reggimento. Ma appena si mette in movimento, si scatena un violento fuoco di armi automatiche: durante la notte il nemico ha occupato la quota, protetto dalla rigogliosa vegetazione e approfittando del frastuono circostante. Sparano con le mitragliatrici e con i mortai, ma per nostra fortuna sparano male… Il colonnello potrebbe decidere di ripiegare, ma non è nello stile del “Savoia”. L’alternativa, dunque, è contrattaccare». Quali sono state le fasi dello scontro? «La battaglia è durata tre ore. Lo scontro ha avuto tre momenti ben definiti. Subito la reazione della nostra artiglieria: 10-12 minuti di fuoco ad alzo zero, efficace e instancabile. Frattanto il colonnello Bettoni ordina di caricare il nemico con il 2° Squadrone, al quale si unisce il 2° plotone mitraglieri. Scesi nel fondo-balka, i 120 cavalieri compiono un’ampia conversione e piombano sul loro fianco destro con assoluta sorpresa. L’esito di questa prima carica è travolgente: i russi si accorgono della carica solo all’urlo “Savoia!” dei cavalieri. L’urto è dirompente. Abba, in piedi tra i mitraglieri, vede alcuni cavalieri cadere e urla: “Io vado. 4° Squadrone: baionetta!”. Inizia così la terza fase della battaglia, la più lunga. Appiedati, superiamo d’un balzo gli 800 metri che ci separano dalla quota: dobbiamo ora occupare il terreno. Non possiamo permettere al nemico di riorganizzarsi; dobbiamo andare oltre. I nemici sono tantissimi per noi che siamo solo in 80». Cosa si agita nel cuore dell’uomo nel pieno di un attacco? «Non vi è alternativa: resa, fuga o sangue… Il sangue, al primo impatto, ti fa impressione vederlo scorrere dalle membra lacerate. Poi, per avanzare, devi scavalcare cadaveri, ignorare lamenti e urla di feriti, l’espressione terrorizzata dell’assalito senza scampo. Durante l’assalto non c’è tempo per pensare e non ci possono essere esitazioni: sarebbero fatali». A questo punto la battaglia sembrava vinta… «Avanziamo conquistando metro dopo metro. Ecco raggiunto quel relitto di macchina agricola. Il fuoco nemico si è fatto meno intenso e organico, anche se si spara ancora con accanimento da alcuni focolai di resistenza a protezione della rovinosa ritirata del grosso delle truppe nemiche che stanno scappando verso il fiume. A questo punto, però, il tenente Toja mi comunica: “Il capitano è ferito. Mi sposto al centro per prendere il comando dello Squadrone. Tu vai avanti lo stesso”. Mi sale un gran senso di rabbia... Constatato che il fuoco nemico è scemato e all’avanzata non si frappongono gravi ostacoli, il capitano Abba invia un portaordini al colonnello: “La quota è nostra. Occorrono autocarri per il recupero dei feriti, dei morti e dei materiali”. Ma poco dopo una raffica lo colpisce in fronte, mortalmente. L’entusiasmo per il sorprendente risultato della battaglia è soffocato dal dolore e dalle lacrime. Il nostro Squadrone ha perso 11 cavalieri tra cui l’insostituibile capitano». A battaglia conclusa che idea vi siete fatti della consistenza dei vostri nemici? «Poi si capì che di fronte a noi c’erano due battaglioni di Siberiani, circa 2.500 uomini. Lasciarono sul terreno 250 morti e, nelle nostre mani, 500 prigionieri, circa la metà feriti: furono trasferiti nei nostri ospedali. Il giorno dopo, 25 agosto, fui promosso – “sul campo” – sergente». Fino a quando durò la vostra attività di copertura del fronte? «Ancora per un mese. Alla fine di settembre arrivò in posizione la “Tridentina” e noi potemmo rientrare a Nikitowka, il luogo della sede invernale. Ma era ormai tempo di avvicendamento. Il 24 dicembre raggiunsi Vipiteno, la mattina di capodanno ero a Milano, in famiglia».
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