martedì 27 ottobre 2020
Una mostra a Milano ripercorre in 100 scatti la carriera e la vita di una icona: voleva essere prima, in assoluto, senza distinzioni di genere. Mauro: «Ma non ha avuto paura di mostrarsi fragile»
Louis Ville, Kentucky, 1937

Louis Ville, Kentucky, 1937 - © Images by Margaret Bourke-White. 1937 The Picture Collection Inc.

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«Un cappotto rosso può fare la differenza. Un cappotto di un rosso particolarmente sgargiante, magari elegante e disegnato da un grande stilista, può compromettere il lavoro e il valore di una fotografa». Quando Margaret Bourke–White, a metà degli anni Trenta, decide di passare dalle fotografie dell’industria a quelle di documentazione sociale occupandosi del Sud degli Usa piegato dalla Depressione, «il suo lavoro viene duramente criticato. Si dice che abbia voluto in qualche modo sciacquarsi la coscienza con un viaggio verso la povertà che sa più che altro di carità a buon mercato». Quella donna, famosa, elegante che ama il cinema, il nuoto, il pattinaggio sul ghiaccio, che va pazza per il teatro e che sì, ha l’ardire di indossare vestiti che non passano inosservati, fa storcere il naso a commentatori e colleghi. Non era pronto quel mondo a una donna così.

A Milano, a Palazzo Reale, si può ripercorre il mito di Margaret Bourke–White in una mostra promossa da Comune di Milano, Palazzo Reale e Contrasto in collaborazione con Life Picture Collection, curata da Alessandra Mauro, dal titolo assai suggestivo: “Prima, donna”. Che in inglese, suona ancora più forte – come evidenzia Roberto Koch, fondatore di Contrasto: «First, woman, perché voleva essere prima. Prima in assoluto. Senza distinzioni di genere. The first. Punto». Figura straordinaria, icona del fotogiornalismo, «una donna di primati» come la definisce Mauro nel catalogo (Contrasto, pagine 184, euro 29,90), che viene raccontata in una selezione di 100 immagini provenienti dall’archivio di Life distinte in undici sezioni tematiche che passano in rassegna tutta la sua carriera e tutta la sua vita. La donna dal cappotto rosso è stata la prima ad arrampicarsi sulle colate di ferro delle fonderie, ma anche la prima a “volare” con la macchina fotografica, a regalare vedute aeree e a farsi ritrarre in una foto magica, sospesa sul gargoyle su cui affacciava il suo studio al 61° piano del Chrysler Building di New York. Il suo motto era: «Se ti trovi a trecento metri di altezza, fingi che siano solo tre, rilassati e lavora con calma».

Margaret Bourke–White in cima al grattacielo Chrysler, New York, 1934

Margaret Bourke–White in cima al grattacielo Chrysler, New York, 1934 - © Oscar Graubner Courtesy Estate of Margaret Bourke White

Passava dalle altezze del cielo alla povertà della grande Depressione americana o all’Apartheid sudafricana; dai piani quinquennali della Russia di Stalin (che riuscì anche a ritrarre) all’India di Gandhi, fotografato poche ora prima che morisse. È stata la prima a indossare una divisa da corrispondente di guerra, appositamente disegnata per lei dall’esercito americano per entrare dentro la guerra, in Nord Africa, in Germania, e sul “fronte dimenticato” dell’Italia, in particolare della Cassino ferita, fino al campo di concentramento di Buchenwald, dove testimonia l’orrore nel momento della liberazione, quando «per lavorare dovevo coprire la mia anima con un velo». Margaret Bourke–White è stata la prima fotografa di Fortune e poi di Life: è sua la copertina del primo numero, nel 1936, chiamata da Henry Luce: «Nulla è più eccitante di contribuire alla creazione di un nuovo giornale. Non esiste niente come sentire una nuova storia che nasce».

Buchenwald, 1945

Buchenwald, 1945 - © Images by Margaret Bourke-White. 1945 The Picture Collection Inc.

La donna dal cappotto rosso “impressiona” il mondo, le storie sulla pellicola. E lo farà con coraggio e schiettezza quando la storia da raccontare sarà la sua, quando diventerà – racconta ancora Mauro – «il soggetto di un reportage che documenta, con la forza e la tenerezza dello sguardo del collega Alfred Eisenstaedt, la sua lotta contro il Parkinson che la immobilizzerà e la porterà alla fine. In quei momenti Margaret, famosa per la sua eleganza e il gusto innato per i vestiti, non ha paura di mostrarsi debole, invecchiata e impaurita». Il reportage di Life si intitolerà “La lotta indomita di una donna famosa”: «Nel corso della mia esperienza – scrive nella sua autobiografia uscita nel 1963, Portrait of myself – una cosa mi ha sempre stupito: la precisione con cui tutto si è svolto. La malattia che mi aveva sottratto le cose belle della vita era una delle più antiche del mondo e all’interno della sua buia storia, vecchia di millenni, io ero nata nel secolo giusto, nel decennio giusto, e addirittura nel mese giusto, per godere degli sviluppi della scienza medica. La mia necessità e l’aiuto degli altri si erano concretizzati proprio quando la medicina era stata pronta ad aiutarmi. Ringrazio il destino di essere arrivata al posto giusto nel momento giusto. Come accade a tutti i bravi fotografi».

La donna dal cappotto rosso alla fine della mostra la vediamo così, nuda nella sua fiera fragilità. La vediamo in un sorprendente ritratto con la mascherina, in sala operatoria. Uno scatto che si confonde con l’attualità, con la malattia globale che stiamo vivendo. Quasi a voler dire che, in qualche modo, lei c’è ancora a dire la sua. A fotografare la storia. Senza tirarsi indietro, anche se il cappotto rosso non le sta più.

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