Al cinema il
Decameron non finisce mai. Nel senso che delle cento novelle che compongono il capolavoro di Giovanni Boccaccio l’ultima, quella che ha per protagonista la virtuosa e sventurata Griselda, continua a essere ignorati da registi e sceneggiatori. Non figurava nel pionieristico
Decamerone diretto nel 1912 da Gennaro Righelli, non compariva nel
Decameron di Pier Paolo Pasolini (1971) e risulta non pervenuta anche in
Maraviglioso Boccaccio di Paolo e Vittorio Taviani, nelle sale da giovedì 26 febbraio. Un film che arriva a un paio d’anni di distanza dal settimo centenario della nascita del Certaldese (1313-1375) e che, forse per via di quell’aggettivo in -
oso presente nel titolo, si trova a dialogare con
Il giovane favoloso di Mario Martone. Prima Leopardi e poi Boccaccio, quindi, quasi a segnalare un ritrovato protagonismo della tradizione letteraria italiana in ambito cinematografico.Ma è davvero così? Lo spettatore di
Maraviglioso Boccaccio è legittimato a nutrire molte aspettative. Le prime provengono dal prestigio dei registi, reduci dall’Orso d’Oro berlinese del 2012 per
Cesare deve morire (in quel caso la fonte era il dramma di Shakespeare) e da sempre a loro agio nella rielaborazione di opere letterarie tanto classiche (si pensi a
Kaos, da Pirandello, o a
Il sole anche di notte, da
Padre Sergio di Tolstoj) quanto contemporanee (
Padre padrone, da Gavino Ledda). Per la loro rielaborazione del
Decameron i Taviani compiono una scelta diametralmente opposta rispetto a quella operata da Pasolini. Anziché dissolverla in un vasto affresco popolareggiante, mantengono la “cornice” del testo originale, addirittura accentuandone l’importanza, di modo che
Maraviglioso Boccaccio diventa, in primo luogo, il racconto della fuga di un gruppo di giovani dalla pestilenza che ha aggredito Firenze. Sono, queste dell’epidemia, le scene più belle del film, nelle quali i Taviani rendono omaggio con maggior efficacia alla stagione d’oro del grande cinema scandivano, tra Dreyer e Bergman.I problemi, però, arrivano quando Fiammetta, Neifile, Filostrato e gli altri, e le altre, si ritirano in villa. Perché la “cornice” o c’è o non c’è. Se c’è, bisogna rispettare le regole stabilite da Boccaccio: che ogni giornata abbia un re o una regina, e che il re o la regina decida l’argomento da affrontare di novella in novella. In
Maraviglioso Boccaccio accade il contrario e il mero principio della varietà delle trame prende il posto dalla progressione morale che caratterizza il testo originale, facendone – secondo l’intuizione di Gianfranco Contini – una sorta di
Divina Commedia a uso dell’emergente borghesia cittadina. Uno schema che, sia pure in modo nascosto, sopravviveva in Pasolini e che invece si smarrisce del tutto nei Taviani.Eccezion fatta per l’intermezzo comico della novella di Calandrino e l’elitropia (protagonista un bravissimo Kim Rossi Stuart), le altre quattro storie ruotano tutte intorno all’esaltazione del sentimento amoroso. L’adattamento più riuscito, per intensità degli interpreti ed equilibrio delle immagini, è probabilmente quello della novella in cui il nobile Tancredi (un eccellente Lello Arena) uccide l’amante della figlia Ghismunda (Kasia Smutniak), spingendola di conseguenza al suicidio. È uno dei vertici dell’arte narrativa di Boccaccio, che in un memorabile giro di frase anticipa lo Shakespeare del
Mercante di Venezia: «Esser ti dovea, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro...».In apertura e in chiusura i Taviani pongono due novelle d’amore impossibile e finalmente ricompensato: Gentile Carisendi (Riccardo Scamarcio) che riporta alla vita l’adorata Catalina (Vittoria Puccini), abbandonata in agonia dal marito, e Federigo degli Alberighi (Josafat Vagni) che sacrifica il suo unico bene, un magnifico falcone da caccia, per onorare la sua ospite Giovanna (Jasmine Trinca). C’è spazio per un accenno, tutto sommato innocuo, al filone dell’anticlericalismo boccacciano, anche se l’ipocrita badessa Usimbalda di Paola Cortellesi è forse sovraccarica nella sua teatralità. Paesaggi indovinati, riprese accurate, qualche accattivante movimento di macchina. Il film, nonostante questo, non riesce a trovare un’identità precisa, un suo punto di equilibrio. Come se, a forza di preoccuparsi della cornice, ci si fosse dimenticati di dipingere il quadro. Peccato, e non solo per Boccaccio.