I vitigni da soli non camminano. Eppure viaggiano, migrano, fanno tragitti impensabili... Ne sa qualcosa il professor Attilio Scienza, da anni sulle tracce del Marzemino, il vino cantato da Mozart («Eccellente Marzemino!», sorseggia voluttuosamente Don Giovanni), in un viaggio a ritroso verso le sue «fonti». Una ricerca ai limiti dell’avventura, che lo ha condotto dal Trentino, patria odierna del Marzemino doc, fin nel cuore del Caucaso, dove l’analisi del Dna delle viti ha permesso di formulare la sentenza: qui vivono gli avi lontanissimi del nostro vino, da qui partirono molti secoli fa i suoi progenitori. «Ma siccome, appunto, i vitigni da soli non camminano – sorride Scienza, ordinario di Viticoltura all’Università degli Studi di Milano, responsabile di numerosi progetti internazionali nel campo della genetica della vite, direttore del Master universitario in «Gestione del sistema vitivinicolo» dell’ateneo milanese, membro dell’Accademia italiana della Vite e del Vino, eccetera, eccetera – questo significa che in passato tra Georgia e Trentino ci furono contatti stretti, scambi culturali, ondate migratorie... Così la scoperta da "enologica" diventa archeologica».
Lo studio di un vitigno è dunque un filo di Arianna per ricostruire il passato?«Non è un caso isolato, anzi, molte delle nozioni che si studiano sui libri di storia sono state ricostruite proprio sulla base di indizi come gli scambi di prodotti o l’incrocio di animali. Ad esempio le razze bovine italiane come la Maremmana sono ciò che resta di ondate nomadi che dalle steppe d’Oriente invasero le nostre pianure...»
E il Marzemino dove l’ha condotta nel suo lungo viaggio a ritroso?«Siamo partiti da Isera, punto di approdo finale dove oggi si produce il vino d’eccellenza, e siamo arrivati a Venezia, da lì alle isole greche dello Jonio (Itaca, Cefalonia, Zante), alle Cicladi, infine all’Armenia e alla Georgia, tra Mar Nero e Mar Caspio. Ci siamo lasciati condurre dal Dna delle viti che incontravamo, ma anche da altri indizi, come la memoria storica o quella linguistica: in alcune isole greche, ad esempio, si beve tuttora il Varzemi, nome molto simile al Marzemino, e difatti i due vitigni condividono una parte del Dna. Naturalmente lungo il suo viaggio secolare dal Caucaso all’Italia la vigna ha subìto molti incroci, così non abbiamo mai trovato il Marzemino ma i suoi cugini, i nonni, i trisavoli... Con molte sorprese curiose».
Quali apporti alla storia derivano da questa ricerca?«Tanti. Ad esempio è emersa la parentela genetica con il celebre Syrah, vino francese, e questo è una prova chiarissima dei rapporti tra i territori adriatici di Venezia e le terre intorno a Marsiglia. Rapporti che hanno radici antichissime, poiché secoli prima di Cristo sia Marsiglia (Massalia) che Spina e Adria erano colonie greche: la "Via di Eracle" collegava la Pianura Padana alla Savoia e a Marsiglia, rendendo possibili gli scambi... Insomma, è chiaro che il Marzemino è un pretesto: il vero obiettivo è la ricostruzione dei contatti tra i popoli».
E a Venezia che cosa è emerso?«Nelle isole della laguna abbiamo rintracciato i vitigni che secoli fa gli ordini monastici coltivavano: tuttora nei conventi e nei luoghi di preghiera crescono i pronipoti di quelle varietà, che sono imparentate proprio col Marzemino d’Isera. Invece nelle ville cittadine, che per tradizione avevano la facciata sul canale e sul retro i cortili coltivati, vivono ancora le viti per uva da tavola, vera mania collezionistica delle famiglie nobiliari di 400 anni fa».
Secoli prima il Marzemino aveva sostato in Grecia...«Dove si era incrociato con vitigni addomesticati. Bisogna sapere che 3.000 anni fa l’uomo aveva addomesticato le viti selvatiche e produceva il vino già da piante di cui proteggeva la qualità, specie grazie al mondo greco, che aveva portato ovunque un uso rituale del vino, divenuto bevanda nobile, da simposio. Per migliorarne la qualità, dunque, i greci incrociarono le viti d’oriente con le loro selvatiche... Come avvenne con le lingue indoeuropee, tutte derivanti da un ceppo unico, così incroci e selezioni crearono sempre nuove varietà di viti, e oggi il nostro compito, come quello dei linguisti, è scoprire non solo le origini ma il percorso fatto per arrivare da noi. Fu un cammino lunghissimo, perché la Georgia è terra molto precoce: ciò che da noi risale nelle sue prime testimonianze al 2000 a.C. in Georgia avviene già nel 5/6000. Ad esempio la fermentazione dei mosti».
Che rapporti ci sono tra questa nuova scienza, l’archeobiologia, che usa il Dna come strumento oggettivo, e l’archeologia classica?«C’è una sempre più forte collaborazione. Ad esempio abbiamo lavorato con gli archeologi dell’Università di Siena su un sito etrusco della Maremma grossetana: accanto alle antiche ville ritrovate crescevano alcune viti, mentre a 500 metri di distanza ne proliferavano altre. Noi abbiamo comparato i due Dna e le differenze genetiche erano totali: significa che quelle accanto alle case erano ancora le viti addomesticate dai padroni delle ville 2000 anni fa, erano cioè le pronipoti delle piante che su quelle tavole riversavano i loro grappoli. Stavamo scoprendo gli aspetti più quotidiani, e anche commoventi, di chi aveva abitato quelle case».
Una ricerca del genere costa. Chi vi ha dato i mezzi?«Provincia di Trento, Comune di Isera e la Cassa Rurale di Isera, tre istituzioni tradizionalmente attente alla storia e alla conservazione del proprio territorio. Non è un caso se Isera, così rispettosa del suo passato, è anche città pioniera per le avanguardie tecnologiche dell’energia rinnovabile. Passato e futuro qui si armonizzano in un esempio virtuoso che anche all’estero ci invidiano».
Prossima tappa?«Grazie a una casa di produzione americana gireremo una fiction storico-divulgativa, con uno scienziato esploratore che insegue un vitigno e scopre mondi sepolti. Una sorta di Indiana Jones del Marzemino».