Piero Angela (1928-2022) - Camilla Morandi/Ipa
L'interesse della puntata di Ulisse dedicata da Alberto Angela al padre Piero è occasione per rileggere il suo lascito morale, sintetizzato nel volume Dieci cose che ho imparato (Mondadori) del quale riproponiamo qui il capitolo conclusivo. «Questo libro raccoglie alcune cose che ho imparato in tanti anni di professione, di incontri, di esperienze, di libri letti e scritti, di speranze e delusioni...»: così Angela ha riassunto questo suo ultimo testo, scritto di getto e nato dall’urgenza del momento, e dalle enormi sfide che ci attendono.
«Il nostro Paese ha bisogno di beni “immateriali”: cioè di conoscenza e di valori. Cose più difficili da ottenere che petrolio o corazzate, perché richiedono un cambiamento di mentalità a dir poco rivoluzionario Eppure si tratta, tutto sommato, di cose semplici, quasi banali» Sulla consolle dei comandi non si contano le spie d’allarme che si sono accese e lampeggiano furiosamente. Ne abbiamo viste alcune come il crollo demografico, la mancanza di comprensione del ruolo di scienza e tecnologia, gli scarsi investimenti in ricerca, l’illusione che la politica produca ricchezza, la vulnerabilità a slogan e promesse insostenibili del “tutto e subito”, un’informazione (dalla televisione ai giornali, al web) dominata, troppo spesso, dall’emotività di sangue, sesso e soldi, la striminzita crescita della produttività, i cambiamenti climatici, il merito che non viene riconosciuto, le posizioni molto basse nelle classifiche internazionali che valutano l’attrattività di un paese per chi voglia investire, ecc. ecc. Eppure, nonostante gli allarmi che richiederebbero azioni molto rapide, non accade nulla o quasi. Tutto va avanti come al solito. Allora la risposta è che il futuro interessa poco. O meglio, interessa il futuro personale, quello della propria famiglia, dei propri figli. Infatti si investe nell’educazione dei figli, perché abbiano un buon futuro, si contrae un mutuo per l’acquisto della casa, si fanno debiti per aprire e avviare un’attività commerciale. Ma sul futuro collettivo nessuno è disposto a spendere e a investire granché. Per varie ragioni. Intanto perché il futuro è per definizione invisibile. Non si sa con precisione cosa succederà. Mentre il presente è sotto gli occhi di tutti, con i suoi problemi, che non sono pochi. Quindi se c’è da spendere un euro è meglio spenderlo per i problemi certi di oggi che per quelli incerti di domani. C’è una parte di verità, in questo ragionamento. Ma è anche il ragionamento con il quale si favoriscono le crisi. È come in una partita a scacchi: anche sulla scacchiera il futuro non è prevedibile, nessuno può sapere come si presenterà dopo quindici mosse. Un buon giocatore, però, sa che non deve lasciarsi tentare da un vantaggio immediato: deve invece impostare le sue mosse per vincere la partita in prospettiva, disponendo i suoi pezzi nel modo migliore. C’è poi un’altra ragione, più tipicamente nostrana: ed è che la gente non si fida della classe politica. Ricordo che, alcuni anni fa, feci fare un’indagine da un istituto specializzato sulla disponibilità degli italiani a investire sul futuro, per quanto riguardava i grandi problemi ambientali. Ne venne fuori un dato abbastanza sorprendente: moltissime persone erano disposte a destinare una percentuale del proprio reddito per assicurarsi un ambiente migliore, per sé e per i propri figli (così come ci si assicura contro gli incidenti automobilistici). Senonché… non si fidavano di come sarebbero stati utilizzati e gestiti i loro soldi. Per riconoscersi in una comunità, in una casa comune (e quindi accettare dei sacrifici), occorre una fiducia che oggi si è smarrita. Che si può dire, allora, al termine di questa lunga cavalcata? Be’, ognuno può trarne le conclusioni che vuole. Ma alcune cose sembrano emergere. Il futuro può anche non interessare ma, in definitiva, non esiste. Non è qualcosa di già scritto. Ci sono tanti futuri possibili. Dipende da quale si vuole scegliere attraverso i propri comportamenti personali e collettivi. Sta soltanto a noi dirigerci, con la nostra intelligenza e lungimiranza o con la nostra miopia e brevimiranza, verso un futuro migliore o peggiore per noi e per le generazioni che verranno. Il nostro paese ha bisogno di beni “immateriali”: cioè di conoscenza e di valori. Cose più difficili da ottenere che petrolio, corazzate o stazioni spaziali, perché richiedono un cambiamento di mentalità a dir poco rivoluzionario. Eppure si tratta, tutto sommato, di cose semplici, quasi banali. È ovvio che un paese oggi debba sviluppare in modo prioritario la sua intelligenza, il suo sapere, la sua inventiva; ed è ovvio che per imboccare questa strada debba porre alla base della comunità nazionale certi valori, a cominciare dal merito, dalla lealtà, dalla correttezza. Questi beni immateriali sono trasversali a qualunque politica. Rappresentano la vera ricchezza di una società, perché sono i motori del cambiamento e consentono di creare in continuazione risorse e di distribuirne i benefici. Peccato che il nostro paese navighi e si perda in altri labirinti. O non è mai troppo tardi?