domenica 29 settembre 2019
Carlo Cardia ricorda il cardinale recentemente scomparso ricostruendo, come testimone diretto, il suo impegno diplomatico nella stesura del nuovo Concordato e nelle relazioni con i Paesi dell’Est
Il cardinale Achille Silvestrini (1923-2019) con Giovanni Paolo II

Il cardinale Achille Silvestrini (1923-2019) con Giovanni Paolo II

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Subito dopo la scomparsa di Achille Silvestrini, il 29 agosto scorso, sin dai primi commenti s’è posta in risalto la sua personalità di eminente uomo di Chiesa che ha interpretato la diplomazia come servizio per il bene comune. I valori che lo ispiravano e molte iniziative che ha realizzato hanno favorito il superamento delle più aspre contrapposizioni della sua epoca, e promosso la pace in un mondo che viveva i rischi di una guerra atomica. S’è quindi ricordata la funzione di cerniera tra Est e Ovest, assolta dalla diplomazia vaticana, e i settori internazionali nei quali è stata attiva e ricca di speciali successi.

Insieme all’impegno a livello mondiale, il cardinale Silvestrini ha svolto un ruolo centrale nelle relazioni tra Santa Sede e Italia, nei rapporti con le componenti politiche nazionali, per la definizione d’una legislazione ecclesiastica in armonia con la Costituzione democratica e con i principi del Concilio Vaticano II, e per la maturazione della società civile in ambito religioso e politico.

È accaduto a me di conoscere Silvestrini nel 1976, in apertura delle trattative per la riforma concordataria, nella veste di consigliere di Pietro Ingrao alla Camera, poi di rappresentante di Enrico Berlinguer presso il Vaticano. È stata una lunga frequentazione, avviata col senatore Paolo Bufalini, che s’è sviluppata nelle diverse fasi del negoziato, tra il 1976 e il 1979, poi nel 1983-84, infine nei momenti in cui s’è realizzata appieno la riforma legislativa.

Non appena iniziarono le trattative, nel 1976, Silvestrini, con Agostino Casaroli, condivise scelte decisive per il loro sviluppo. Si ritenne utile, anzitutto, che la base parlamentare della riforma fosse la più ampia possibile, e che vi partecipasse direttamente il partito di Berlinguer sottolineando anche, nei colloqui con i suoi esponenti, il valore storico del sostegno del Pci all’articolo 7 della Costituzione e l’inserimento nell’ambito costituzionale dei Patti lateranensi e della loro riforma.

Un’altra scelta, strettamente connessa e non scontata, portò a incontrare i rappresentanti di Berlinguer che seguivano le trattative, in modo discreto ma continuo, in particolare il senatore Bufalini e me: scelta, questa, espressamente approvata dai presidenti del Consiglio dell’epoca, Giulio Andreotti nella prima fase, Bettino Craxi nella seconda.

Con Bufalini, umanista tra i più eminenti della sinistra italiana del secondo Novecento, si stabilì un rapporto di profonda stima e collaborazione, che consentì di affrontare i temi più importanti delle relazioni ecclesiastiche e mantenere negli anni successivi un binario di rapporti tra la maggiore componente parlamentare della sinistra e il Vaticano. Emma Fattorini ha riassunto con la formula della «diplomazia dell’amicizia» e dell’incontro con le persone concrete, il senso più caratteristico della conduzione degli affari ecclesiastici, che ha permesso di superare le difficoltà incontrate in un’epoca segnata da divisioni culturali e politiche.

Tra i momenti risolutivi, nella realizzazione di nuovi rapporti Stato e Chiesa in Italia, ne ricordo due in particolare. Fin dalle premesse delle trattative, Casaroli e Silvestrini chiesero a nome di Paolo VI il pensiero di Berlinguer sull’insegnamento religioso nella scuola pubblica ritenendolo centrale per i nuovi rapporti tra Stato e Chiesa. Nell’esaminare la questione con Bufalini e Berlinguer si mise l’accento sul fatto che all’opposto di una certa vulgata allora di moda, l’insegnamento religioso non è stato introdotto in Italia da Giovanni Gentile e dal fascismo (che invece lo estesero e lo resero quasi obbligatorio) bensì dai padri liberali, i quali con la Legge Coppino del 1877 lo introdussero, facoltativo, nella scuola primaria dell’epoca, e che quasi tutte le famiglie scelsero di farlo seguire dai propri figli.

A questa constatazione, molto significativa per la tradizione di laicità propria del Pci, Berlinguer aggiunse una riflessione sua personale, rilevando che l’insegnamento era prezioso per la formazione dei giovani, consentiva di parlare loro dei valori, in una scuola che altrimenti rischiava di rimanerne priva. La risposta alla sollecitazione di Paolo VI, trasmessa a Silvestrini fu dunque positiva, con l’aggiunta però che una riforma coerente con la Costituzione doveva fondarsi sulla piena facoltatività e volontarietà dell’ora di religione. Casaroli e Silvestrini espressero l’apprezzamento del Papa per questa scelta e le sue motivazioni.

Un secondo momento di particolare difficoltà anche per i tempi strettissimi si manifestò quando ci venne consegnata (così era negli accordi tra Governo e gruppi parlamentari) l’ultima bozza definitiva del Concordato, dopo l’incontro tra Craxi e Casaroli nel febbraio 1984. Nella bozza, però, sulla quale si doveva esprimere il consenso definitivo, risultò in qualche misura affievolita la formulazione con la quale si aboliva la formula del confessionismo di Stato (risalente all’articolo 1 dei Patti del 1929), e ciò poneva in crisi la cornice stessa dell’Accordo di revisione.

In quel momento Bufalini era in partenza per un impegno internazionale, ma ormai mancavano pochissimi giorni alla firma del nuovo testo pattizio. Per incarico di Bufalini e di Berlinguer feci presente a Silvestrini che la nuova formula, non concordata e diversa rispetto alle precedenti bozze, avrebbe incrinato il consenso del Pci, con rischio per la riforma nel suo complesso. Ne seguì una consultazione diretta con Silvestrini, altre autorità ecclesiastiche, al termine della quale Casaroli convenne che era meglio tornare alle formule pattuite nei testi precedenti, rilevando che anche la Chiesa conveniva che l’affermazione della laicità dello Stato fosse limpida e senza ombre per tutti gli interlocutori.

La revisione del Concordato ha realizzato la promessa contenuta nell’articolo 7 della Costituzione, e ha favorito l’attuazione piena del principio di laicità con l’approvazione delle intese con altre confessioni religiose, e una legislazione rispettosa di pluralismo confessionale maturato nella realtà italiana. Silvestrini era attentissimo alla promozione dei valori costituzionali di libertà ed eguaglianza religiosa perché, diceva, la libertà religiosa è un bene prezioso che lo Stato deve garantire a tutti.

La riforma del 1984 svolse all’epoca una più ampia funzione di maturazione dei rapporti politici e di crescita culturale per la sinistra nel suo insieme. Egli è stato l’artefice della riforma normativa, e il punto di snodo tra personalità diverse che trovarono in lui un prezioso interlocutore per colloquiare in amicizia e sincerità.

Ricordo, tra gli altri, l’incontro tra un esponente del Pci e Achille Silvestrini quando il primo chiese di vederlo alla vigilia di un suo viaggio nella Polonia di Jaruzelski. Pur con cautele minime che evitassero pubblicità, l’incontro si realizzò in Vaticano, con uno scambio di opinioni sull’esigenza che venisse superata nei tempi possibili la abnorme situazione determinata dal colpo di Stato che era stato effettuato, si diceva, per evitare l’occupazione sovietica della Polonia. Il mondo, mi disse Silvestrini dopo l’incontro, vedeva screpolarsi il totalitarismo sotto i suoi occhi e tutto quanto si può fare per agevolare questo processo era sicuro investimento per il futuro.

Egli ha guidato il processo riformatore anche quando fu chiamato a nuovi incarichi, e dopo il 1984 passò la staffetta ad Attilio Nicora, vescovo ausiliare di Milano, che rappresentava la Conferenza episcopale italiana.

La collaborazione tra i due prelati è stata intensa per lunghi anni, ha espresso una sintonia di intenti e metodologia che ha aiutato tutti i protagonisti a proseguire in un’opera di rinnovamento legislativo e culturale di dimensione storica. Con i protagonisti italiani della trattativa, Francesco Margiotta Broglio e Cesare Mirabelli, il binomio Silvestrini-Nicora, in stretta collaborazione con alti esponenti ecclesiastici, come monsignor Giuseppe Betori, Giuseppe Mani, Antonio Mennini, realizzò una sorta di gruppo riformatore che ha trasformato l’ordinamento italiano in un ordinamento laico, pienamente amico delle religioni e delle Chiese, raggiungendo un traguardo che è diventato un esempio per tanti Paesi europei.

È stato già osservato da altri, Giacomo Gambassi su “Avvenire” e Andrea Riccardi sul “Corriere della Sera”, che la personalità di Achille Silvestrini era poliedrica. E se l’impegno diplomatico l’ha portato a essere protagonista su più versanti, a cominciare da quello per il superamento delle storiche divisioni tra Est e Ovest, egli viveva un intreccio tra dimensione pastorale e sociale che non conosceva interruzioni. Si sentiva, nelle conversazioni che in tanti anni toccarono i più diversi temi, quella bellissima e piena realizzazione sacerdotale che induceva un po’ tutti a porre il lavoro comune su un livello più elevato, nel quale la spiritualità e la saggezza si amalgamavano e s’intrecciavano. Ciò ha portato coloro che l’hanno frequentato a stargli vicino spiritualmente quando le forze fisiche si indebolivano, e a vedere in lui quasi il simbolo vivente di una grande speranza per il futuro di un mondo in cui la realizzazione della pace possa portare frutti continui e ricchi, per relazioni umane, tra Stati e tra religioni, in un cammino di crescente pacificazione e di rispetto reciproco.

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