Michela Murgia - Fotogramma
Di quali “diritti” era paladina Michela Murgia? Cosa sono le “famiglie queer”? E perché la notizia della sua morte prematura è stata celebrata dai media con l’enfasi che si dedica a un profeta inascoltato, al difensore di aspirazioni calpestate, quasi ci avesse lasciati un Gandhi scrittore?
Sia chiaro che qui non discutiamo la caratura letteraria e lo spessore intellettuale della scrittrice sarda, ma una volta ancora colpisce molto come la comunicazione sembri sganciare la persona dal personaggio, la donna e l’autrice di romanzi e saggi da ciò che ha finito per rappresentare sulla scena pubblica, specie dopo l’intervista concessa in maggio al Corriere, nella quale oltre a raccontare della sua malattia ormai giunta all’ultima tappa aveva anche parlato della sua “famiglia queer”, definizione ignota ai più ma sufficiente a crearle attorno un alone di avvocata delle cause “scomode”. Una fama che negli anni si era andata consolidando con scritti, interviste e discorsi in cui si era resa protagonista di battaglie per la schwa – la “e” capovolta che al termine di una parola indica l’indifferenza di genere –, sostenendo da tempo con la sua energia argomentativa le campagne sull’eutanasia, il diritto all’aborto e l’omogenitorialità.
Tutto questo ha fatto della Murgia l’icona di un’antropologia centrata sulla volontà personale, ispirata a una libertà di scelta insindacabile e a un’autodeterminazione assoluta, che vede nel soggetto il solo arbitro di sé stesso, senza riferimenti ad alcuna istanza oggettiva che lo precede e che condivide con tutti gli esseri umani. Su di me decido io, ognuno decida per sé. Molto in linea con l’idea oggi dominante sulla pubblica piazza, con la “ribellione” come cifra assai reclamizzata e però smentita da un effettivo allineamento al pensiero corrente. Cosa c’è in fondo di più organico alla mentalità diffusa del sentirci padroni di tutto ciò che ci riguarda, e del far pensare che ogni sistema di pensiero, ogni istituzione e legge che vi si oppone sia espressione di una cultura retrograda che crea infelicità?
Il messaggio che ora prevale nei mezzi di comunicazione è della «scrittrice dei diritti», «libera fino alla fine», «attivista a testa alta», con la sua figura eletta a simbolo della contestazione di un ordine che in realtà appare già sgretolato dal soggettivismo dominante. Un pensiero provocatorio come il suo, e ancor di più l’uso che se ne sta facendo come di una bandiera issata su campagne di opinione attorno ad aspetti nevralgici della famiglia e della vita, ci obbliga a un confronto onesto, come sarebbe piaciuto a lei. E tra i diversi punti che si rinvengono nelle sue parole dette e scritte, specie nell’ultimo periodo, forse quello che più sta incidendo sull’immaginario è proprio quello di “famiglia queer” – la prova è che ila mattina successiva alla sua morte era tra le domande più frequenti rivolte ai motori di ricerca – intesa da Michela Murgia come «una famiglia ibrida, fondata sullo ius voluntatis: perché la volontà deve contare meno del sangue?». Non più famiglia, dunque, ma contenitore a geometria variabile di affetti variamente assemblati.
Se sulla fede della scrittrice sarda nessuno può pronunciarsi, la sua visione della persona va in una direzione opposta a quella personalista e relazionale della dottrina cristiana, che non esenta la volontà da una valutazione etica. Questo sì che oggi è un pensiero “scomodo”.