È un’iniziativa senza precedenti, quella assunta dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha reso noto ieri con una nota, diffusa poco dopo mezzogiorno, di aver «affidato all’avvocato generale dello Stato l’incarico di rappresentare la Presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione da sollevare dinanzi alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo». Il
casus belli nasce da due conversazioni telefoniche fra il Capo dello Stato e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, «captate» indirettamente, poiché il telefono sotto controllo era quello di Mancino, indagato per falsa testimonianza nell’ambito dell’inchiesta condotta dai magistrati palermitani sulla presunta trattativa Stato-mafia dopo le stragi del 1992. Delle telefonate, e del loro ipotetico contenuto, si dibatte ormai da oltre un mese, con congetture e illazioni che hanno fatto crescere l’irritazione del Quirinale, infastidito anche dalle sortite mediatiche di alcune toghe palermitane. Prima di arrivare alla decisione di ieri, attraverso l’avvocatura di Stato, il 27 giugno il Quirinale aveva chiesto chiarimenti al capo della procura di Palermo, Francesco Messineo, che il 6 luglio aveva risposto: «È irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato» e non se «ne prevede alcuna utilizzazione» ma solo «la distruzione», «con la autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, sentite le parti». Il nodo è proprio questo: le intercettazioni di conversazioni del capo dello Stato, sostiene nel decreto il Quirinale, ancorché indirette e occasionali, sono «vietate» e dunque non possono essere «valutate» o «trascritte», ma solo immediatamente «distrutte». Altrimenti, si configura una «lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione». Il decreto si richiama agli articoli 90 della Costituzione e 7 della legge 219 del 1989, secondo cui (salvo i casi «d’alto tradimento o attentato alla Costituzione») delle intercettazioni di conversazioni cui partecipa il Presidente, «il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione». Il solo valutarle, tenerle agli atti e sottoporle al Gip e alle parti, per Napolitano «aggrava gli effetti lesivi delle precedenti condotte». Nel decreto si cita infine Luigi Einaudi, che includeva fra i doveri dell’inquilino del Colle quello di evitare, per silenzio o inammissibile ignoranza, «precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce».Ma da Palermo, i vertici della procura restano sulle proprie posizioni: «Siamo sereni. Le prerogative del Quirinale sono state rispettate» fa sapere Messineo, mentre il procuratore aggiunto, Antonio Ingroia, contrattacca: «Se l’intercettazione non è rilevante per la persona che è sottoposta a immunità e lo è per un indagato qualsiasi, può essere utilizzata».Sul piano politico, la presa di posizione di Napolitano incassa il consenso di quasi tutti i partiti, ad eccezione dell’Italia dei valori, schierata in difesa dell’autonomia della magistratura. Ma lo stesso ministro di Giustizia, Paola Severino, tiene a precisare che il capo dello Stato «ha utilizzato il mezzo più corretto tra quelli previsti dal nostro ordinamento per risolvere i problemi interpretativi della legge sulle intercettazioni. Non è stato un intervento a tutela di interessi personali». Sulla vicenda preferisce infine non pronunciarsi l’Anm, rappresentata dal presidente, Rodolfo Sabelli: «Non vogliamo interferire. Troppe parole fanno male alle indagini e ai processi».