La difficoltà di capire la crisi economica, finanziaria, civile e politica che stiamo vivendo, nasce soprattutto dal fatto che il nostro capitalismo finanziario-individualista presenta, accanto a tratti antichi, dei tratti inediti, che sfuggono e impediscono a tanti di capire quanto sta accadendo. La lettura classica del sistema economico- sociale moderno, o democratico, era basata sulle classi sociali, espressione a loro volta di classi economiche. La minoranza che detiene la ricchezza – si diceva – ha in mano anche il potere politico, e lo esercita con il consenso della maggioranza di cittadini-lavoratori che accettano di essere governati dagli interessi dei ricchi e potenti, perché, nella sostanza, ogni alternativa migliore o non è intravista o considerata troppo rischiosa e costosa. A questo proposito così scriveva l’economista Achille Loria nel 1902: «Chiunque osservi con animo spassionato la società umana (…) vi ritrova lo strano fenomeno di una assoluta, irrevocabile scissione in due classi rigorosamente distinte; l’una delle quali, senza far nulla, s’appropria redditi enormi e crescenti, laddove l’altra, più numerosa d’assai, lavora dal mattino alla sera della sua vita in contraccambio di una misera mercede; l’una, cioè, vive senza lavorare, mentre l’altra lavora senza vivere, o senza vivere umanamente».
Marxismo e socialismo, cattolicesimo sociale, cooperativismo, ma anche pensiero liberale (ieri, John Stuart Mill e, oggi, Amartya Sen) condividevano questa diagnosi, sebbene divergessero sulla natura del rapporto tra le classi, per alcuni di tipo cooperativo e armonico per altri antagonistico e violento. Alcuni autori, il più noto è l’italiano Vilfredo Pareto, avevano anche teorizzato che questa distinzione in due (o più) classi contrapposte non fosse limitata all’economia e alla politica, ma si estendesse all’intelligenza, ai talenti, fino a rappresentare una sorta di legge generale di natura, di fatto immodificabile. Altri, invece, la pensavano diversamente, e la storia della democrazia di questi ultimi due secoli può anche essere letta come una lotta per ridurre progressivamente o eliminare la rigida divisione della società in ricchi/ potenti versus poveri/deboli, anche se grandi erano e restano le differenze sul 'come' fare. Le teorie liberali ipotizzavano che il mercato stesso, maturando ed evolvendo, avrebbe reso più ugualitario e democratico il capitalismo, mentre quelle marxiste proponevano la rivoluzione. In ogni caso entrambe erano 'teorie del progresso', basate sulla convinzione che la società moderna avrebbe in qualche modo superato l’oppressione di una classe sulle altre. La storia recente ha però dimostrato che entrambi questi umanesimi hanno tradito la loro grande promessa, perché le società moderne (comprese quelle collettiviste del recente passato, e del presente) non si trovano, al di là delle retoriche, in una situazione sostanzialmente diversa da quella descritta 110 anni fa da Loria. La contrapposizione tra classi non è oggi meno radicata di quella tipica dell’era del capitalismo industriale, o della società feudale. Ma ci sono delle novità, che se non viste e comprese rischiano di nasconderci la reale modalità di permanenza delle classi e le conseguenze che ne derivano.
La principale novità consiste nell’invisibilità della classe dominante attuale. Nelle società passate, i ricchi e potenti erano ben individuabili e presenti: erano i padroni, i nobili, i patrizi. Erano visti e all’occorrenza anche combattuti e rovesciati dal trono nei loro luoghi concreti (palazzi, castelli, ultimo piano degli uffici …). Oggi i veri ricchi e i veri potenti vivono in città invisibili, sebbene molto reali, in non-luoghi: chi incontra mai per le strade delle nostre città i veri ricchi (top-manager, finanzieri…)? Diversamente dal passato, non vestono (troppo) diversamente da tutti, non hanno auto troppo diverse dagli altri, e anche se hanno case molto diverse dalle nostre, non le vediamo se non in tv (o sulle riviste patinate) – e quindi, sul piano civile, è come se non esistessero.Tutto ciò rende difficile intercettare la nuova classe dominante, e così si pensa e si scrive che le classi sociali, i padroni e i sudditi, siano oggi scomparsi; e quando la frustrazione cresce li si va a cercare nei luoghi sbagliati (piccoli e veri imprenditori, amministratori locali, parlamentari…). E invece la classe dominante continua ad esistere, e i suoi membri agiscono a tutti i livelli per consolidare privilegi, potere e soprattutto le rendite di posizione. Sia chiaro: non si tratta di tirar fuori la solita favola dei complotti, ma solo di prendere sul serio la categoria del potere, di cui si parla sempre meno. È infatti troppo evidente che a una esigua minoranza della popolazione questa crisi non ha creato nessun problema, anzi ha solo rafforzato ricchezza e potere. L’insicurezza, la vulnerabilità, la paura del presente e del domani – i tipici segnali che dicono indigenza, ieri e oggi – non riguardano la classe dominante, ma tutti gli altri. Tranne, e qui sta il punto, nelle fasi acute della crisi (lo scorso autunno, ad esempio), quando di fronte al rischio che saltasse il banco (e le banche), anche la classe dominante ha avuto paura, e ha agito subito, "commissariando" (con esigenti liste di 'compiti a casa') le nostre democrazie che non hanno opposto resistenza perché fiacche, qualche volta colluse, comunque senza visione. E infatti, se non ce ne fossimo ancora accorti, a pagare il conto per riportare il sistema sotto-controllo non è la classe dominante, ma l’altra, tutti gli altri. Ecco perché sotto questa crisi si nasconde una domanda campale per la democrazia: dobbiamo prendere coscienza che dietro a quanto sta accadendo non c’è nulla di inevitabile e nessun destino, ma solo scelte concrete, che vanno capite, discusse, e poi democraticamente votate.C’è oggi, almeno come ieri e persino di più, una élite di popolazione, sempre più transnazionale, consociata ma senza volto e volti, che vuole evitare il «default» del sistema senza mettere in discussione i propri privilegi, ricchezza, potere, ma solo, e semplicemente, la democrazia. Ragionava lo scorso gennaio con motivato e saggio allarme un osservatore "non tecnico" ma attento come il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, come tra clamorose disattenzioni, cortine fumogene e mode culturali si stia favorendo «il formarsi di coaguli sovrannazionali talmente potenti e senza scrupoli, tali da rendere la politica sempre più debole e sottomessa». E così, mentre «dovrebbe essere decisiva», essa si ritrova messa all’angolo. Perché la (quasi) invisibile classe dominante ha deciso «di tagliarla fuori e renderla irrilevante, quasi inutile». Che fare allora? Innanzitutto prendere coscienza del problema economico-sociale e democratico che si pone, e poi agire anche politicamente. Usando, però, categorie culturali che siano all’altezza della fase storica che stiamo attraversando.