Un'immagine di scena di "Carmen l'ultimo incontro" con Rossella Brescia e la regia di Marco Voleri
Marco era il protagonista di tutto. A sei anni, quando la maestra chiedeva: «Chi vuole fare il lupo nella recita?» lui alzava la mano per primo, con un sorriso che mangiava la paura e un entusiasmo che sembrava fatto apposta per i riflettori. Si muoveva sul palco con la sicurezza di chi sa esattamente dove mettere i piedi, e quando la platea applaudiva faceva l’inchino con la stessa serietà di un attore consumato. Era così: un vulcano. Gli altri bambini lo seguivano come api dietro al miele. Eppure, di notte, quel vulcano si spegneva. Restava immobile, con gli occhi aperti nel buio della sua cameretta, ad ascoltare. Aspettava l’urlo di suo padre, lo scoppio improvviso di una porta sbattuta, il frastuono del tavolo che volava, ribaltato, con la furia di un temporale. E poi il suono più terribile di tutti: il respiro di sua madre, spezzato come una parola interrotta. Marco oggi è adulto. Non recita più, ma il palcoscenico è ancora il suo regno. È un regista, e sul palco non ci sale più lui: ci mette gli altri. Il suo ultimo lavoro è incentrato sulla storia di Carmen. Non quella frivola e spavalda che si ricorda dai libri di scuola, ma una Carmen che è insieme passione e paura, forza e fragilità. Una Carmen che conosce bene il peso delle mani altrui, che sogna libertà anche quando sa che potrebbe costarle tutto. Non l’ha scelta per caso, Carmen. Se l’è trovata davanti grazie a Elena, che mesi fa gli ha proposto di affrontare in uno spettacolo musicale il tema della violenza sulle donne. L’ha scelta perché in lei ha rivisto il sorriso di sua madre, quello che si spegneva quando suo padre varcava la soglia di casa. L’ha scelta perché Carmen è il coraggio di dire no, anche quando il no è un atto di guerra.
A scuola, Marco era un uragano. Gli piaceva essere al centro dell’attenzione, non per vanità ma per un bisogno urgente, quasi fisico, di riempire il silenzio con la sua voce. Ogni applauso era un modo per dire “guardatemi, ci sono, sono vivo.” Quello che nessuno vedeva era come tornava a casa, con la giacca ancora impregnata dell’odore del palchetto della scuola e il cuore pesante. Sua madre lo guardava, seduta in cucina, con una tazza di tè che non beveva mai. «Com’è andata oggi?» chiedeva con un filo di voce. «Bene» rispondeva Marco, mentre si toglieva le scarpe. Non le raccontava mai che la maestra l’aveva lodato, che i compagni lo avevano applaudito. Aveva imparato presto che non si poteva festeggiare quando in casa c’era quel clima sospeso, quella tensione che sembrava una corda pronta a spezzarsi.
E poi arrivava suo padre. La sua voce era un tuono, le sue mani temporali. Marco guardava, immobile, come se il suo corpo si fosse fatto piccolo piccolo, sperando che il ciclone passasse senza vederlo. Ma il ciclone vedeva tutto.
Oggi Marco è un uomo che ha trasformato quella tempesta in arte. Sul palco, Carmen non è una vittima: è un simbolo. Ogni passo di danza, ogni nota cantata è un pezzo della storia che lui ha vissuto. C’è una scena, verso la fine dello spettacolo, in cui Carmen si rialza dopo essere caduta. La luce le illumina il viso, e nella platea c’è sempre un momento di silenzio assoluto.
Quando Marco rilegge il testo finale dello spettacolo sente il brivido dell’ultimo incontro. Lo spettacolo si chiude con la voce di Carmen, ma è quella di sua madre a risuonare nella testa: «Io voglio essere libera». È un grido spezzato, che si riallaccia alle parole del “Manifesto delle libertà“.
Non a caso Marco ha montato questo spettacolo insieme e grazie a due donne: Elena, che lo ha ideato e concepito, e Debora, che ha scritto il testo come un testamento, non solo per Carmen ma per ogni donna che non ha avuto modo di alzarsi dall’ultimo tavolo ribaltato.
Nell’ultima scena Carmen non muore: la sua figura, circondata dalla luce, si libera di ogni costrizione. Lascia cadere il velo, come a sfidare il destino. In quel momento, Marco pensa a sua madre, a tutte le donne che possono essere Carmen, e capisce che il vero protagonista non è mai stato lui, ma ciò che resta quando il sipario cala: un eco di libertà. Quella libertà che lui, per anni, ha cercato sul palco da bambino. Quella libertà che sua madre non ha mai avuto. Quella libertà che Carmen incarna in ogni piazza, ogni città, ogni vita che si ribella al silenzio.
Sul palco, mentre le luci si spengono, un attimo prima degli applausi, Marco chiude gli occhi. L’ultimo incontro non è un addio, ma un invito a ricominciare, ancora una volta, a vivere.