
Un neonato è sempre speranza - Cristian Gennari
Giornata per la Vita, dov’è la festa? Ci pare ancora di doverla cercare nascosta, dopo quasi mezzo secolo che torna col suo presagio primaverile, con quella sua aria di gioia che non ci è quotidiana. Ma dov’è l’indirizzo, quella parola ripetuta da molte voci, desiderata, sognata, persin fatta cuore d’un giubileo: la parola speranza? Sì, forse lì, forse proprio nel giorno della Vita la porta che schiude idealmente il futuro ha quel nome, speranza. O non si dice fra noi, con la spiccia saggezza dei nostri proverbi feriali, che fin che c’è vita c’è speranza?
È vero, vita e speranza si intrecciano da sé, si abbracciano nel farsi consistere. Potessimo capire che anche questo anniversario è una “rivoluzione” (così chiamiamo il ritorno annuale della terra al punto dove la corsa nell’orbita del suo sole ripete il cammino); ma non perché immerge nel mistero del tempo la vita che muore e rinasce; né perché fa della speranza il setaccio fra le delusioni del passato e gli slanci verso il futuro. Rivoluzione resta nel cuore come parola di fuoco, come una palingenesi promessa. È la vita, di suo, che ci fa speranti. È la speranza, di suo, che ci fa vivi.
Pure, ogni vita sta dentro la stretta del tempo. E il tempo che viviamo è segnato da tragedie globali, da guerre che rinnovano crimini disumani e inaudite crudeltà; migrazioni di disperati fra torture e naufragi; genti stremate da fame, malattie e povertà, e fra essi l’innocenza straziata dei bambini; e dentro la vita innocente dei bambini, dei figli, dei nuovi germogli, dei nuovi viventi della famiglia umana, l’incredibile strage che li uccide prima di nascere. Il nesso tra guerre e aborti non è casuale: lo rivelò al mondo un Nobel per la pace nel 1979, Teresa di Calcutta. E ripensandoci si prova ancora un brivido, se il motto essenziale della guerra “pietà l’è morta” si confronta con la parola perduta di “compassione” che ha per etimo antico l’utero materno.
Certo l’umanità si porta sul groppone della storia, da sempre, i trionfi della morte generati dalla sua industriosa follia. Ma oggi la differenza è l’assuefazione. Droni, missili, bombe su ospedali, campi profughi, macerie, mutilazioni, cadaveri, fosse comuni. E barconi come carri funebri. E aborti come diritti di salute riproduttiva. Litanie di morte quotidiana senza quasi più reazione di cuore, tanto ci ha penetrati quell’altro veleno, la perdita della speranza. Che altro è la dottrina della “mutua distruzione assicurata”, dove si fa salvavita un terrore? Che altro è il primato del desiderio e del tornaconto rispetto all’altrui sorte?
Anche l’anima s’ammala, e rischia la morte. La malattia mortale, come scrisse Kierkegaard, si chiama disperazione. Dunque per l’umanità la Vita, l’amore per la Vita, la scelta della Vita non è diversa da una grande sfida di speranza a sconfiggere la malattia mortale. Ma dovrà essere una “rivoluzione”. Ne fu profeta Bernanos quando scrisse: «Giorno verrà che in un mondo organizzato sulla disperazione predicare la speranza sarà come lanciare un tizzone ardente accanto a un barile di polvere».
Forse il giorno è venuto, è il tempo nostro, il tempo di vegliare e non più di stare inerti, il tempo di costruire e non più di distruggere, il tempo di generare e non più di uccidere, il tempo di amare e non più di odiare. Questo potrà accadere non più per proclami, dichiarazioni, princìpi, intenzioni, auspici: accadrà se la speranza diverrà operosa com’è nella sua natura. La speranza infatti, la stessa speranza umana, terrestre, è progetto e coraggio coerente. All’umanità, per guarire i suoi mali, serve scongiurare le guerre, sconfiggere la fame, la povertà, le malattie, lo sfruttamento dei nuovi schiavi, e in una parola dare aiuto alla vita. Ma i progetti, e le carte e i trattati non fanno il miracolo senza l’azione di aiuto. La speranza è il coraggio di promettersi, di darsi in aiuto alla vita.
Nel Messaggio che i vescovi italiani hanno scritto per questa Giornata per la Vita la parola speranza è un filo rosso che guida alla disamina del presente e alle prospettive di grazia insite in quella fornace di speranza che è il Giubileo. Così la speranza resta parola di fede, resta dono e virtù. La virtù di saper attendere in veglia operosa il futuro come una lampada accesa, senza dubitare, senza smarrirsi: impiegata a ottenere il suo frutto nel segno di una tensione d’amore. Così ebbe ragione di dire il poeta Péguy che la Speranza è la sorella minore che tiene per mano la Fede e la Carità, come guida sicura.
Il Messaggio dei vescovi non viene qui riassunto, va letto per intero, sulle tracce che percorrono i temi della necessità di credere nel domani; della carica di gioiosa speranza nella trasmissione della vita, aperta alla fiducia e alla relazione; della dignità inviolabile di ogni vita umana; della difesa della vita nascente e della necessità di provvidenze in aiuto della maternità difficile (rammentando a tal proposito l’attività generosa di soccorso svolta dai Centri di Aiuto alla Vita); della genitorialità; dell’impegno che a tutti incombe per la vita, cristiani in primis.
E si comprende che la conclusione porti ancora la parola essenziale dell’aiuto, quello invocato da Dio, quello del Dio “amante della vita” che riecheggia la preghiera finale posta a suggello della storica enciclica Evangelium vitae. Se ciò inspira un pensiero definitivo sulla speranza dentro la nostra vita umana, che la storia pone per tutti sotto il segno della morte, è che la morte non sarà l’ultima parola; sarà l’ultimo nemico a essere annientato. Per lo spirito, speranza è morire vivi, disperazione vivere morti.