Un reparto di terapia intensiva - Reuters
Il Covid-19 ha inaugurato tempi nuovi. Tutto si sta già trasformando irreversibilmente, a partire dalle priorità dei bisogni e delle problematiche, e le questioni finora rubricate nell’ambito della bioetica non fanno eccezione. Un primo assaggio lo abbiamo già avuto nelle settimane passate, quando con drammatica tempestività un documento della Siaarti (la Società scientifica italiana degli anestesisti e dei rianimatori) ha lanciato l’allarme: cosa fare quando i malati sono tanti e le risorse sanitarie disponibili non bastano, nonostante gli sforzi per reperirle? Un problema non eludibile, più urgente nei giorni più acuti della crisi pandemica ma che non possiamo pensare di esserci lasciati alle spalle.
La discussione è nata soprattutto intorno ad alcuni passaggi del testo Siaarti, che indicavano come possibile elemento di valutazione per l’accesso alle terapie intensive l’età del paziente, pur precisando che non si tratta di attribuire un valore alla persona ma di fare scelte estreme, valutando in primis probabilità di sopravvivenza e, poi, più anni di vita salvata. Ne è scaturito un dibattito italiano che si è innestato in uno internazionale, a molte voci, del quale possiamo enucleare a grandi linee le risposte al quesito posto, cominciando dalla necessità di utilizzare criteri medici, cioè di valutare ciascun singolo paziente a seconda della sua situazione clinica personale, considerando tutti i fattori in gioco.
In questo senso va il parere diffuso mercoledì 15 aprile dal Comitato Nazionale per la Bioetica (Cnb) «Covid-19: la decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica”», approvato nel corso dell’ultima plenaria, in teleconferenza, con il voto contrario di Maurizio Mori. Il Cnb non elude il problema della allocazione di risorse scarse a fronte di bisogni enormi, e lo affronta stabilendo criteri di priorità nell’accesso ai trattamenti, senza escludere nessuno a priori: si continuano ad adottare i criteri del triage nel Pronto Soccorso ospedaliero in tempi normali, dilatandoli però alla situazione creatasi con lo scoppio della pandemia. Il Cnb propone quindi un «triage in emergenza pandemica», riconoscendo «il criterio clinico come il più adeguato punto di riferimento» e «ritenendo ogni altro criterio di selezione, quale ad esempio l’età, il sesso, la condizione e il ruolo sociale, l’appartenenza etnica, la disabilità, la responsabilità rispetto a comportamenti che hanno indotto la patologia, i costi, eticamente inaccettabile».
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Il Comitato articola il criterio clinico in due concetti: appropriatezza clinica e attualità. «Appropriatezza clinica» significa che per ogni singola persona malata si tiene conto della condizione clinica globale, dell’urgenza e gravità della situazione, e in base a tutti i fattori si valuta per chi, fra i pazienti, «ragionevolmente il trattamento può risultare maggiormente efficace, nel senso di garantire la maggiore possibilità di sopravvivenza. Non si deve cioè adottare un criterio in base al quale la persona malata verrebbe esclusa perché appartenente a una categoria stabilita aprioristicamente». Con l’«attualità» il Cnb spiega poi chi sono i pazienti su cui avviene la valutazione: non solo quelli fisicamente presenti al Pronto Soccorso ma anche quelli che i medici hanno già valutato, magari rimandati in precedenza a casa e improvvisamente peggiorati, oppure già ricoverati e non ancora sottoposti a trattamenti salvavita. Il Comitato propone cioè, a differenza del triage ospedaliero normale, una sorta di lista di attesa dinamica, dove la valutazione di ogni singola persona malata viene condotta tenendo conto della «comunità dei pazienti» già esistenti: valutazione aggiornata periodicamente, a seconda delle tempistiche dettate dalla malattia, possibilmente condivisa da più medici. Ulteriori riflessioni riguardano le persone più vulnerabili in tempi di pandemia, a partire dagli anziani, e gli operatori sanitari, a cui il Cnb manifesta sostegno e solidarietà, e per i quali «segnala con preoccupazione la proliferazione di contenziosi giudiziari [...]. A tal proposito, ritiene che vada presa in considerazione l’idea di limitare eventuali profili di responsabilità professionale degli operatori sanitari in relazione alle attività svolte per fronteggiare l’emergenza Covid-19».
Anche il parere del Comitato di Bioetica della Spagna, molto articolato, suggerisce criteri individualizzati di allocazione delle risorse, che cioè guardino a ogni singolo paziente, evitando di escludere qualcuno a priori, per via dell’età avanzata o della disabilità. È polemica aperta con alcune società scientifiche spagnole, criticate dagli esperti in bioetica per aver fatto riferimento alla disabilità cognitiva. Singolarmente empatici i toni del testo spagnolo, che esordisce raccontando come molti dei componenti il Comitato siano stati già contagiati e rivelando il coinvolgimento anche personale degli studiosi nel dramma in corso. Netta l’indicazione dei bioeticisti spagnoli su chi ha il compito di stabilire le politiche sanitarie, compresa la destinazione delle risorse: solo l’autorità pubblica – governo e Ministero della Salute – ne ha la legittimità, ed è la Costituzione a dargliela. Società scientifiche, professionali e comitati di bioetica possono certamente pronunciarsi, ma non spettano a loro le decisioni ultime. Il primato della politica sugli esperti non poteva essere più netto.
Nella stessa direzione, in questo ambito, il Comitato di Bioetica tedesco, quando ricorda che delegare scelte politiche alla scienza è contrario alla «legittimazione democratica»: se la politica deve basarsi sui suggerimenti degli studiosi per le sue iniziative, non può però farsi sostituire. La massima attenzione, comunque, deve essere per «la salvaguardia delle fondamenta del sistema legale», qualsiasi decisione si prenda: è questo il criterio base sia per l’allocazione delle risorse scarse che per tutte le altre iniziative durante l’emergenza. Nel merito dei criteri di accesso, il Comitato tedesco si limita a indicare cosa non si dovrebbe fare, dando criteri più che altro metodologici: decisioni condivise, in trasparenza, argomentate e non discriminatorie per età, stato sociale, disabilità etc.
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Di nuovo metodologica, ma diversa, l’impostazione dell’Hasting Center che propone linee guida dedicate, rivolte soprattutto ai Comitati etici degli ospedali e al personale sanitario, con taglio operativo. Il centro di bioetica americano enuclea pragmaticamente le problematiche che emergono dalla pandemia ma non entra nel merito, rimandando per ognuna a una bibliografia selezionata. Un approccio utile in un primo momento per orientarsi in un fenomeno travolgente, ma che non affronta direttamente nessuno dei nodi individuati e ne rimanda la soluzione.
È dovuto addirittura intervenire l’Ufficio per i diritti civili del Dipartimento della salute e dei servizi umani Usa, a seguito di denunce di associazioni di disabili: come riportato anche da Avvenire, diversi Stati hanno adottato infatti documenti di indirizzo con profili discriminatori nei confronti delle persone disabili, specie mentali.
L’amministrazione Usa si è affrettata a precisare che «alle persone con disabilità non dovrebbe essere negata l’assistenza medica sulla base di stereotipi, valutazioni della qualità della vita o giudizi sul “valore” relativo di una persona in base alla presenza o all’assenza di disabilità». Nel bollettino dell’Ufficio si chiarisce che le decisioni per l’accesso ai trattamenti «dovrebbero basarsi su una valutazione individualizzata del paziente incentrata sulla migliore evidenza medica obiettiva disponibile».
Il confronto è appena iniziato.