Uno scatto frontale, uno di profilo, uno in obliquo. Il numero di matricola. La “divisa” a righe. Sono le foto segnaletiche di Auschwitz. Dei prigionieri deportati, delle vittime innocenti della barbarie e dell’orrore che si consumava nei lager. Migliaia, milioni di fotografie divenute memoria, a cui si è dato un nome, una dignità, un valore. Testimoni oggi di quello che è stato. Occhi puri che scuotono le nostre coscienze. Ci guardano fissi e ci interrogano: «Perché?».
La foto segnaletica della giovane polacca Czesława Kwoka, prigioniera 26947, uccisa ad Auschwitz nel 1943 - Wilhelm Brasse
Czesława Kwoka, prigioniera 26947, aveva 14 anni quando venne uccisa nel campo di concentramento di Auschwitz, il 12 marzo 1943. Era una dei circa 230mila bambini e ragazzi sotto i diciotto anni deportati lì tra il 1940 e il 1945. Era polacca, nata nel villaggio di Wólka Złojecka, figlia di una donna cattolica, morta anche lei ad Auschwitz, un mese prima. Gli occhi spauriti di Czesława fissano lo specchio della macchina fotografica. Dietro il mirino non c’è un soldato nazista. C’è Wilhelm Brasse, un prigioniero come lei, numero 3444, polacco come lei, solo di dieci anni più grande. Nel 1939, dopo l’invasione tedesca della Polonia, le SS gli avevano proposto di giurare fedeltà a Hitler e di arruolarsi nella Wehrmacht. Il giovane fotografo ritrattista, che aveva imparato il mestiere dalla zia, nel suo studio di Katowice, si rifiutò, si sentiva polacco e non voleva tradire la sua patria. Pagherà quel no con la prigionia. Ma se il suo lavoro non lo renderà davvero “libero” – secondo il beffardo e provocatorio motto che campeggia all’ingresso del lager “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi” – gli salverà la vita. Insieme ad altri fotografi, ricevette infatti l’ordine di documentare le attività del campo e i prigionieri (lo stesso avveniva a Buchenwald con Georges Angéli o a Mauthausen con Francisco Boix).
Brasse scatterà migliaia e migliaia di fotografie. Ogni giorno scorrevano davanti a lui i volti di chi arrivava ad Auschwitz. Li guardava con dolore, impotente. Fu costretto a fotografare anche le vittime degli atroci esperimenti del “dottor morte”, il medico criminale nazista Josef Mengele. Foto che non sarebbero mai dovute arrivare fino a noi: quando i sovietici entrarono in Polonia agli inizi del 1945 i nazisti ordinarono a Brasse di distruggere le fotografie e i negativi. Ma lui disobbedì, ancora una volta, nascondendo nei dormitori la maggior parte delle sue oltre 40mila foto e facendole arrivare alla Resistenza, poi recuperate dai sovietici. Brasse fu deportato dai nazisti, insieme ad altre migliaia di prigionieri nei campi di Mauthausen-Gusen e poi Ebensee, in Austria, dove Brasse rimase imprigionato fino alla liberazione degli alleati, nel maggio del 1945.
Libero, ma con i segni indelebili delle atrocità naziste impresse nei suoi occhi, Brasse tornò a Zywiec, lì dov’era nato, non lontano da Auschwitz. Non scattò mai più foto. Aprì un salumificio, si sposò ed ebbe due figli, Lidia e Jerzy. «Nonostante avessi una macchina Kodak, non sono più riuscito a fotografare, ne avevo repulsione». Wilhelm Brasse ha rimesso l’occhio dietro un obiettivo nel 2005 per il documentario Portrecista (“Il ritrattista”) della regista polacca Irek Dobrowolski, presentato per la prima volta alla tv polacca TvP1 nel giorno di Capodanno del 2006, per raccontare pubblicamente gli orrori osservati attraverso la sua macchina fotografica e far diventare il suo ricordo testimonianza. La sua storia è stata narrata anche in un libro di Luca Crippa e Maurizio Onnis, Il fotografo di Auschwitz (edito da Piemme, ormai fuori catalogo). Brasse è morto il 23 ottobre del 2012, a 94 anni.
Le sue fotografie sono esposte al museo di Auschwitz e di Yad Vashem a Gerusalemme. Sono un pezzo fondamentale della Memoria. Una documentazione imprescindibile di quell’orrore. La foto di Czesława è una delle più emblematiche. Di lei Brasse ricordava ogni dettaglio. «Era così giovane e così terrorizzata – raccontò nel documentario -. La ragazza non capiva perché fosse lì e cosa le stessero dicendo. Allora una donna Kapo prese un bastone e la colpì in faccia. Quella donna tedesca stava solo sfogando la sua rabbia contro la ragazza. Una ragazza così bella, così innocente. Lei pianse, ma non poté fare nulla. Prima che la fotografia fosse scattata, la ragazza si asciugò le lacrime e il sangue dal taglio sul labbro. A dire la verità, mi sentivo come se fossi stato colpito io stesso, ma non potevo intromettermi. Sarebbe stato fatale. Non potevi dire assolutamente nulla».
Oggi sono gli occhi di Czesława a parlare. E a lasciarci senza parole. Con una foto.