sabato 21 marzo 2020
Vorrei sapere i nomi di almeno qualcuno di quei morti portati via nelle bare dai camion dell'Esercito da Bergamo, perché erano troppi. Le casse erano tutte uguali, nella cappella del cimitero lombardo, e allineate davanti all'altare come bambini nel giorno della Prima Comunione. Già, bambini: anche quei morti sconosciuti, per lo più anziani, sono stati certamente dei bambini. Se avevano 80 anni, erano nati durante la guerra: le madri li aspettavano, trepidanti, mentre in Europa la tragedia raggiungeva l'apice. Sono, quegli sconosciuti portati via anonimamente, senza un fiore, i figli piccoli che i padri soldati avevano nel cuore, in Grecia o in Russia; quelli di cui parlavano in lettere dalla grafia spesso incerta, che sulla busta portavano il timbro della censura. Erano, quei bambini, l'ultimo pensiero di soldati che, nel gelo della steppa, sopraffatti si lasciavano andare. Tra le lettere ingiallite spedite ogni giorno da mio padre, ufficiale degli alpini, alla fidanzata, che sarebbe diventata mia madre, ce n'è una in cui – sempre tacendo, per pudore, o per non spaventare della sconfitta che si andava delineando – scriveva: «Un giorno questa guerra finirà, e noi ci sposeremo. Vorrei una piccola casa per noi, e due bambini, e un gatto». Ecco, nei sogni dei padri in guerra c'era, già nata o nascitura, la generazione in cui il Covid-19 sta mietendo con la falce. Figli orfani o infine riabbracciati, figli dapprima affamati, poi intenti a ricostruire l'Italia. I carpentieri che riedificarono le città distrutte, le tute blu infiammate dal marxismo, i garzoni che fischiettavano le prime canzoni di Sanremo. Solo Dio ora conosce la storia dei morti nelle bare tutte uguali di Bergamo. In fila davanti all'altare, come nel giorno di una remota Prima Comunione.
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