François de La Rochefoucauld (1613-1680) ha scritto sentenze e aforismi divenuti talmente proverbiali da essere citati (e magari storpiati) senza ricordare (o sapere) chi ne è l'autore, come capita, per esempio, con Oscar Wilde, Bernard Shaw, Ennio Flaiano e altri più vicini a noi. Chi ha detto: «L'ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù»? La Rochefoucauld, naturalmente. Ed è sempre La Rochefoucauld a sostenere che «Abbiamo tutti abbastanza forza per sopportare i mali altrui». Suo è anche il copyright di questa battuta: «I vecchi amano dare buoni precetti, per consolarsi di non essere più in grado di dare cattivi esempi».Di La Rochefoucauld esce l'edizione critica delle Sentenze e massime morali, a cura di Carlo Carena, splendido novantenne, principe di traduttori e curatori di classici (Einaudi, pp. 454, euro 80). È un libro bellissimo anche come oggetto: testo francese a fronte, rilegato, con sovraccoperta, in cofanetto rigido, impreziosito da sedici tavole a colori che illustrano particolari di quadri barocchi che girano sul tema della Vanitas. Un volume adatto anche per un regalo a persone intelligenti (l'amico dentista che non ha voluto essere pagato per un piccolo intervento), perché è sì un libro-oggetto, ma da leggere. Eccolo qui, dunque, François VI de La Rochefoucauld, nel ritratto di Théodore Chassériau, con la vaporosa parrucca castana e i baffi sottili, con un gran colletto di pizzo, e senza le cicatrici che gli deturparono il volto compromettendogli la vista, a seguito delle ferite riportate in diversi combattimenti in cui si trovò immischiato come esponente della Fronda contro i cardinali Richelieu e Mazarino. Si sposò a quattordici anni con Andrée de Vivonne, figlia del Gran Falconiere di Francia, da cui ebbe otto figli, ma che non incise granché nella sua vita sentimentale, animata da varie gentildonne. Le sue massime e i suoi aforismi si caratterizzano per il profondo pessimismo sulla natura umana, intaccata dal peccato originale: la virtù spesso è una maschera del vizio, l'uomo agisce solo per amor proprio e interesse. Si comprende, pertanto, la reputazione che La Rochefoucauld ebbe tra i giansenisti. Ma si tratta di sentenze nate nei salotti della duchessa di Chevreuse e di Madame de Sablé, e quindi con un'inguaribile aura mondana, quasi per il gusto di scandalizzare: i veri pessimisti, per coerenza, finiscono per suicidarsi, cosa che, fortunatamente, non avvenne per La Rochefoucauld, che morì nella notte fra il 16 e il 17 marzo 1680, dopo aver ricevuto l'Estrema unzione da Bossuet. Tuttavia, frequentare i pessimisti, soprattutto se letterariamente perfetti, è tonificante, perché insegna a diffidare innanzitutto di sé e a scandagliare i recessi della propria coscienza. Jean d'Ormesson, nella prefazione, ha scritto: «La Rochefoucauld è rigido, ostinato, spesso arbitrario. Ma ha la mira giusta e nulla è più moderno della crudeltà di questo grande signore di un'altra epoca». Impossibile, dunque sottrarsi al gioco di spigolare tra i tanti aforismi che, non va dimenticato, sono sbocciati quasi per gioco: «Le virtù si perdono nell'interesse, come i fiumi si perdono nel mare»; «La ripulsa delle lodi è un desiderio di essere lodati due volte»; «Se non avessimo difetti, non godremmo tanto a rilevarne negli altri»; «Ciò che ci rende insopportabile la vanità altrui è che ferisce la nostra». Non manca mai, nei moralisti del Seicento, un tocco di misoginia: «La maggior parte delle donne oneste sono tesori nascosti, che sono al sicuro solo perché nessuno li cerca».Ancora in spietata autocritica: «Non riconosciamo come gente di buon senso se non chi è della nostra opinione»; «Confessiamo i nostri piccoli difetti solo per convincere che non ne abbiamo di grandi»; «Si crede talvolta di odiare l'adulazione, ma non si odia che il modo di adulare»; «Per quanto bene si dica di noi, non ci si insegna niente di nuovo».Le massime sono 504, e per chiudere con un vertice di profondità e di frivolezza, ecco la n. 26: «Né il sole né la morte si possono guardare fissamente».
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