Ah, gli stereotipi del rock. Quelli per cui i rocker per primi si autoescludono dalla poesia per esser sempre brutti, sporchi e cattivi. A volte lo sono davvero, beninteso: e riconoscerlo bisogna. Poi però, quasi per caso, capita di pescare dallo scaffale degli anni Ottanta uno degli album più duri del primo vero rock italiano, una faccenda intitolata C'è chi dice no.
Si mette il disco nel lettore, si pigia "play" e si diffondono nell'aria tastiere a distesa, chitarre taglienti, batteria pesante, un sax che piange. Soprattutto, una voce, «maledetta», che strascica. Cantando la fotografia di una corrotta "Italia da bere" che non tutti, nell'87, avevano il coraggio di denunciare. «Guarda, guarda là... Guarda la città... Guarda quante verità, quante... Quanti che corrono felici... Macchine veloci, genti più capaci... Quanti vincono, gli altri muoiono... Io non voglio correre, io non voglio perdere, non ridere... Cosa non darei, per vivere una favola».
E anche se non si è brutti sporchi e cattivi, è così che il rock finisce con entrarci dentro: perché sa esprimere la voglia dell'anima di volare via dallo squallore. Eh già: senza stereotipi certo rock è una gran bella faccenda: specie quello, spesso più lucido di quanto lui lasci intendere, di Vasco Rossi.