In una camera la mamma appena morta per una violenta emorragia da parto, nella stanza accanto la piccola appena nata che strilla nella sua culla improvvisata. Qualcosa di tremendo, inaudito, indicibile. L'impossibilità di gioire dell'evento più grande e più bello del mondo, vale a dire l'arrivo di una nuova vita, era una tragedia nella tragedia. Penso che una tale esperienza non sia relegabile alla cronaca né affidabile al cassetto dei ricordi, perché eventi del genere non solo segnano ma insegnano la vita. Impossibile non pensare che ogni anno torna un giorno, quel giorno, che porta con sé un anniversario di duplice e perenne segno: una persona defunta da commemorare e un'altra da festeggiare. Il pensiero allora corre al Vangelo, là dove sta scritto «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Giovanni 12, 24); corre all'antifona pasquale che recita «la morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso duello (mors et vita duello conflixere mirando)»; corre a quella gioventù che, al sabato sera, cercando sfrenatamente la felicità, si schianta contro il muro della fine; corre a quanti fanno fatica a compensare il pianto con la gioia, la luce del giorno con il buio della notte; corre alla vita che coabita con la morte.
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